Papalamericano
Da una spiaggia del South Carolina: Papa Prevost non è un caso; il programma di Anche una donna qui nelle prossime settimane; là dove l’italiana passa inosservata
Wow. Wow! WOOOOWW!!! Avevo scritto e programmato questa uscita prima di andare in vacanza questa settimana, e contavo di non pensarci più… invece mi sento di aggiungere un pezzettino dell’ultimo minuto, per dare il benvenuto a tutte le tantissime persone che si sono iscritte grazie all’edizione della scorsa settimana: Ho finito di pagare la macchina. Negli Stati Uniti, è un problema.
Siete arrivate e arrivati a decine (al momento quasi 100 nuove iscrizioni!). Ogni volta che prendo in mano il cellulare o apro il computer trovo la notifica di una nuova iscrizione. Non me lo aspettavo proprio da quella puntata tra tutte, ma sono felicissima che vi sia piaciuta, e che abbiate deciso di far parte di questo spazio!
L’edizione di oggi è anomala rispetto al solito — un potpourri di spunti, più che un approfondimento focalizzato —, ma se volete un assaggio di quello che potete aspettarvi da questo spazio, qui potete leggere il manifesto per il 2025. Qui tutti gli articoli sugli Stati Uniti; qui i reportage dalle strade di questo Paese. Se volete leggere qualche analisi a sfondo italiano, invece, vi indirizzo qui.
Grazie di cuore per la fiducia! Ad maiora!
Dai, il papa americano era chiaramente scritto nelle stelle… (video di teo_the_teach)
Scrivo questa uscita di Anche una donna qui con dieci giorni di anticipo sulla data di pubblicazione, poiché quel giorno (oggi per chi legge) mi troverò a Pawleys Island, in South Carolina, per la vacanza al mare annuale con la famiglia allargata di James (la stessa a cui mi sono recata in visita qui).
La vacanza si tiene ogni anno l’ultima settimana di maggio in concomitanza con la festività nazionale di Memorial Day, una delle tante dedicate ai veterani militari. Memorial Day è dedicata ai caduti e ricorre ogni ultimo lunedì di maggio; Veterans Day invece è dedicata ai veterani ancora in vita, e ricorre l’11 novembre. Ogni anno, sulla spiaggia di Pawleys, io e James giochiamo a quanti costumi da bagno a stelle e strisce riusciamo a contare (tanti: anche il South Carolina appartiene al Sud repubblicano, patriota e MAGA).
Questa vacanza inaugura un periodo di spostamenti che mi obbliga a prendere importanti decisioni su come gestire i miei impegni lavorativi, tra cui la pubblicazione di questa newsletter. Colgo quindi l’occasione vacanziera di questa edizione per annunciare cosa potete aspettarvi da Anche una donna qui nelle prossime settimane, con l’arrivo dell’estate e il bisogno di ritagliare un momento di riposo continuando a coltivare la fertilità questo spazio.
Prima, però, un breve excursus sul primo papa statunitense, visto che non abbiamo ancora avuto occasione di parlarne su queste pagine diqui. Il commento è presto detto: non mi sembra un caso che Robert Prevost sia stato eletto a una carica da sempre considerata off-limits per un porporato proveniente dagli Stati Uniti (riporta il New York Times che lo stesso Cardinal Prevost, all’sms di un amico che dopo la morte di Francesco gli ha detto che sarebbe stato un ottimo papa, ha risposto: “I’m an American, I can’t be elected”), nello stesso momento storico in cui alla presidenza degli Stati Uniti siede Donald Trump.
Ne ho parlato a caldo, subito dopo l’annunzio, in un articolo su
:Da cui cito la tesi principale:
Leone XIV non è stato eletto per intensificare ulteriormente l’influenza degli Stati Uniti [motivo per cui il Vaticano si è storicamente tenuto alla larga dalla scelta di un Papa americano, ndr]. Al contrario, è ragionevole pensare che il papa americano sia stato scelto per tenerla a bada, controbilanciarla, creare un canale di comunicazione produttiva con quel lato del mondo con cui è diventato sempre più difficile comunicare: ai tempi di Giovanni Paolo II era oltre la cortina di ferro, ora invece si trova al di là dell’oceano Atlantico.
Per Jefferson ho anche raccolto le testimonianze di alcuni fedeli presso una parrocchia cattolica a Boulder, in Colorado, dove vivo:
Se già è difficile ridurre l’elezione di una figura politica a un unico motivo su tutti gli altri, ha ancora meno senso farlo con l’elezione di un papa, che avviene una volta ogni morte di, a sola discrezione di un collegio di qualche decina di uomini. Papa Leone XIV non è stato eletto solo perché statunitense in un’epoca in cui gli Stati Uniti hanno destabilizzato gli equilibri socio-politico-culturali mondiali. Tant’è che Prevost, in quasi settant’anni di vita, ha passato più tempo fuori dagli Stati Uniti che dentro; tant’è che affacciatosi al balcone di Piazza San Pietro, Leone si è espresso in italiano e spagnolo e non nella lingua del suo Paese.
Il peso dell’identità americana, tuttavia, non ha bisogno dell’inglese per esprimersi. Anzi: un papa americano ma non troppo (cit. Don Camillo) sembra spuntare tante caselle nella direzione di una giusta moderazione nel bilanciare — in una maniera che si spera sarà orientata al progresso — i diversificati interessi di una comunità dall’enorme respiro globale, sullo sfondo di un mondo dilaniato dal dispotismo delle destre.
Anche una donna… quest’estate
Nelle prossime settimane, con l’arrivo dell’estate — la mia stagione preferita! — avrò bisogno di ritagliarmi qualche momento di riposo. Rientrata dal South Carolina partirò per l’Italia, dove mi fermerò fino a metà luglio.1 Sono viaggi, sì, ma faccio fatica a percepirli come vacanze e occasioni di distensione strutturata.
Dì a una persona americana che vai sei settimane in Italia: I am so jealous!!! è la reazione tipica di chi ti immagina tutti i giorni immersa nella visita di una qualche rovina etrusca, anfiteatro romano o palazzo rinascimentale, seguita da un pranzo di tre ore e sette bottiglie di vino, poi dolce pennica e quindi cinque spritz prima di una cena a dieci portate vista romantico canale.
Grazie alle persone statunitensi ho scoperto che l’Italia è un Paese spettacolare e letteralmente adorato nel resto del mondo. Ma per me l’Italia è anche quotidianità, routine, casa tanto vera quanto quella americana (se non di più). Esito a definire i miei rientri come una vacanza vera e propria.
Ancor più ora che nella mia vita non esiste più il concetto di ferie pagate. Quando lavoravo in azienda e prendevo due settimane di ferie per tornare in Italia, era facile percepire una demarcazione fisica e mentale tra lavoro e pausa. Ora che sono la capa di me stessa e posso concedermi una pausa quando voglio… concedermi una pausa è diventato più difficile, per via dei compromessi che richiede.
Da gennaio, Anche una donna qui è uscita puntualmente tutte le settimane ogni mercoledì. La costanza è stata premiata da tanta crescita: non solo nel numero di persone iscritte e persone abbonate, ma anche nella qualità dei rapporti e delle conversazioni che si sono create con tantə di voi che leggete queste pagine. È una crescita lenta ma profonda, costante, viva e produttiva. La “viralità” è sconosciuta a queste pagine, ma chi c’è, sento che c’è veramente. Confido che il percorso continuerà in maniera sempre più entusiasmante.
Tra il ritmo della scrittura e altre attività lavorative, ho accumulato molta stanchezza. È dura prendermi una pausa sostanziosa, però, perché se non scrivo e non pubblico, la crescita si ferma con me; se prendo una pausa dalle altre attività lavorative, non ricevo i relativi compensi in denaro. Sono compromessi che vanno accettati, nel momento in cui si dà alla propria carriera la svolta che ho dato io. Ma proprio per quanto significativa è stata la crescita di questi sei mesi, è la prima volta da che ho scelto questa strada che temo gli effetti di una pausa. Se corpo e mente mi chiedono qualche giorno di ferie, faccio fatica a concederglielo.
Per fortuna, ho imparato a ricordarmi che senza fermarsi ogni tanto, momentaneamente, la crescita a un certo punto si arresta del tutto, definitivamente.
È per questo che nelle prossime settimane rallenterò un po’ il ritmo della pubblicazione: alcune uscite, come questa, sono state scritte e programmate in anticipo. Potrebbero essere uscite più brevi o contenenti assaggi diversi su una varietà di temi, come oggi. Con calma visti gli impegni italiani, commenterò l’esito dei referendum dell’8-9 giugno, in particolare quello sulla cittadinanza. Per il resto, scriverò se, quanto e quando potrò. Devo accettare questo compromesso in cambio di sostenibilità della scrittura nel lungo termine.
Ci tengo a rendere chi mi legge partecipe di questi ragionamenti non solo per giustificare la cadenza di uscita delle prossime settimane, ma anche perché le persone iscritte o abbonate contribuiscono alla vita e alla crescita di uno spazio come questo tanto quanto l’autrice!
Bonus: là dove l’italiana passa inosservata
Ho scritto questa riflessione, poi tagliata per questioni di lunghezza, per un altro articolo qualche settimana fa. Ve la mando oggi perché pertinente al mio soggiorno in uno Stato come il South Carolina.
Vivere non solo da straniera, ma specificamente da italiana in quattro diverse zone ricche, urbane e ultrasviluppate degli Stati Uniti (Santa Barbara in California, Chicago, Boston, Boulder) mi ha abituata a reazioni di sproporzionato entusiasmo quando rivelo il mio Paese di provenienza. Se il popolo italiano è squisitamente avvezzo all’autocritica, all’estero l’Italia è universalmente adorata da chi fa solo esperienza della sua bellezza, della sua storia, della sua cucina, che l’Italia, ammettiamolo, è capace di declinare all’infinito.
L’adorazione delle persone statunitensi per l’Italia fa presto a cadere in forme di esotismo slegato dalla realtà e spesso anche offensivo (di questo tema, prospettiva Sardegna, ha parlato recentemente anche
su ). Ed è anche per questo che gestire la reazione americana media al mio Paese di provenienza fa presto a diventare alienante, straniante, stancante.Nelle zone rurali degli Stati Uniti, invece, la reazione è molto diversa: non c’è. Non perviene. Ammonta al massimo a un cenno della testa, o a un “ah” seguito da esattamente nessun entusiasmo, nessun racconto di quel viaggio indimenticabile a romafirenzevenezia, nessun panegirico su quanto è delizioso il nostro cibo, nessuna ode alla musicalità della nostra lingua e, soprattutto, nessuna mimesis non richiesta del mio accento in inglese o tentativo di esprimersi a gesti.
Niente di tutto ciò, perché la maggior parte della gente che incontro nelle zone pesantemente rurali degli Stati Uniti non è mai stata in Italia, non è neanche mai stata fuori dagli Stati Uniti, non è nemmeno in possesso di passaporto. Non è vicina di casa di quella famiglia di espatriati italiani che lei è professoressa e lui ingegnere e ogni tanto ci invitano a cena, ma quanto è delizioso il vostro cibo!!!
Niente di tutto ciò: solo tanta pace. Un senso di liberazione. Per un attimo posso passare inosservata e concentrarmi su di loro, invece che parlare di me e da dove provengo, di cui so già tutto o quasi.
Entrambe le reazioni — l’entusiasmo da una parte, il silenzio dall’altra — sono esperienze di alienazione e straniamento. In entrambi i casi la persona straniera esiste come diversa e altro dallo standard. In entrambi i casi faccio presto a sentirmi a disagio. Ma a volte preferisco il silenzio, perché invece di essere studiata al microscopio, mi permette di ascoltare e osservare.
Amiche e amici che leggete: ho tante questioni amministrative e familiari da sbrigare. Non ne abbiate a male se non mi faccio viva subito: ci sentiremo e vedremo sicuramente appena possibile!
A proposito del "ritorno della emigrante", diciamolo che mooolto spesso non si tratta affatto di vacanza ma di gestire – oltre al lavoro freelance – burocrazia, temi familiari e via dicendo! Per questo: buona pausa, che sia nutritiva e rigenerante. ☀️
Brava Enrica, prenditi un po' di meritato riposo! Firmato "una che non va in vacanza dal 2016" 😂 Scherzi a parte, la menzione dei costumi mi ha fatto venire in mente un racconto bellissimo dentro un libro altrettanto bello: The Office of Historical Corrections di Danielle Evans. Se non l'hai già letto te lo consiglio come lettura vacanziera!