Uomini, bianchi, ricchi, di destra. Un'analisi con Pietro Izzo di Patrilineare
Quando incontro uomini di destra, i più aggressivi nel difendere le loro posizioni politiche sono anche i più benestanti. Ne parlo con un autore in prima linea nella decostruzione del patriarcato.

Riconosco subito la tipologia. Calzoni corti color chiaro o pastello, polo, cappellino da baseball in testa, scarpe da barca: la versione statunitense, modalità drink dopo il lavoro, di quella che in Italia sarebbe la camicia con le cifre del proprio nome e il mocassino di camoscio. Manierismi che trasudano piena fiducia in sé e nelle proprie capacità e opinioni, il bicchierino di whiskey tra le mani, lo sguardo concentrato che suggerisce che l’argomento di conversazione è serio e importante, probabilmente c’è di mezzo un grande affare, dei soldi, un inghippo da risolvere tra chi — occhiolino — sa come muoversi.
Sono tentata di provare subito a parlare con loro, i due uomini bianchi seduti di fianco a dove prendo posto per cena, al bancone del bar1 di un ristorante di pesce a Biloxi, in Mississippi. Poi finisco per chiacchierare con la donna alla mia destra, in trasferta di lavoro a Biloxi dal Maryland. Conversiamo di cibo (ordiniamo lo stesso piatto a base di tonno crudo), della situazione politica (è una democratica), di viaggi in Italia (c’è stata recentemente con marito e due figlie ventenni) e come se questi fatti non ne fossero già un chiaro segno, percepisco che la donna ricopre un ruolo manageriale importante nell’azienda ingegneristica per cui lavora.
Più tardi, mentre pago, chiedo alla barista se mi può consigliare dove andare a Biloxi per trovare persone impiegate nell’industria locale del pesce, che voglio intervistare sul tema dei dazi. L’industria del pesce sulla costa del Golfo del Messico, dalla Louisiana alla Florida, ha accolto con entusiasmo la politica commerciale di Trump, definita un’àncora di salvezza per far fronte alla competizione delle importazioni da Paesi del sud-est asiatico come Vietnam, Indonesia e India. Il contatto che dovevo incontrare (rintracciato grazie a un articolo del New York Times) è svanito nel nulla, non risponde più a email, chiamate e messaggi (lo farà di nuovo solo una settimana dopo il mio rientro), e ho bisogno di alternative.
Dei due uomini visibilmente benestanti seduti al bancone ne è rimasto solo uno. Alla parola “dazi” (tariffs in inglese) si incuriosisce e vuole sapere come mai sono interessata all’argomento. Finiamo a parlare per un’ora, bevendo una leggera birra domestica in bottiglia.
L’uomo si chiama Harmon, avrà poco meno di sessant’anni, è un imprenditore nel settore energetico (non mi dice il nome dell’azienda, nel caso in cui lo citi nei miei articoli). È cresciuto poverissimo, mi rivela, e ha lavorato sodo — al contrario di chi pretende di campare con i sussidi del governo a spese dei contribuenti, occhiolino — per dare alle due figlie, ora in età universitaria, ciò che lui crescendo non ha mai avuto: un frigorifero sempre pieno di cibo.
Harmon è dichiaratamente, pesantemente, violentemente pro-Trump. A volte sembra che gli si formi la bava bianca alla bocca, tanto è l’ardore con cui argomenta a sostegno delle politiche del Presidente, dell’ideologia MAGA, della necessità di mettere l’America al primo posto e quindi metterla in quel posto alle nazioni del mondo che la trattano come un distributore di denaro e si divertono a fotterla.
“Fa schifo, io l’ho provato”, dice del sistema sanitario universale offerto dalla maggior parte dei Paesi europei, tra cui l’Italia, quando esprimo apprezzamento per le istituzioni pubbliche al servizio di tutto il popolo (non solo una parte), in risposta alle invettive di Harmon sull’inutilità del governo federale. L’imprenditore è, ovviamente, un grande ammiratore di Elon Musk — “Cosa ci guadagna, a fare quello che fa? Nulla. Lo fa gratuitamente, per il bene del popolo americano” — e condivide i tagli indiscriminati alle risorse pubbliche perpetrati dal Dipartimento per l’efficienza governativa.
Scelgo di non pubblicare il commento di Harmon sulla validità delle istanze della comunità transgender, tanto violento ed escludente da rischiare di colpire emotivamente chi mi legge, senza alcuna giustificazione di dovere di cronaca.
Durante le mie peregrinazioni oltre le roccaforti democratiche degli Stati Uniti, ho incontrato tantissimi sostenitori di Trump, soprattutto uomini (ergo il maschile, non sovraesteso ma necessario) e soprattutto appartenenti alla classe lavoratrice: agricoltori, pastori, gestori di piccoli ristoranti o motel di paese, personale addetto alle pulizie, operai, eccetera. Nessuno — e sottolineo nessuno — di questi uomini mi ha mai parlato del suo pensiero politico e delle istanze al cuore della sua vita con la stessa violenza, aggressività e pretesa di verità che ha mostrato il ricco imprenditore Harmon.
Il numero di persone con cui ho parlato nei cosiddetti Stati rossi non ha valore statistico. È evidente che il dato generalizzato della mia esperienza non si applica alla totalità della base di Donald Trump: a insorgere al Campidoglio il 6 gennaio 2021 c’erano tantissimi uomini della classe lavoratrice2, ad esempio. Benché non rappresentativa di un fenomeno, tuttavia, la mia esperienza è costante. Nessuno dei sostenitori di Trump con il “colletto blu” si è mai espresso in mia presenza con la stessa veemenza e cattiveria del “colletto bianco” Harmon.
Non solo: ho osservato la medesima dinamica in giro per l’Italia l’anno scorso. Parlando di parità di genere e diritti, libertà e dignità delle donne con decine di italianə, la persona che ha comunicato nella maniera più aggressiva e più violentemente ed esplicitamente contraria ai valori della giustizia sociale è stato un uomo bianco e benestante.
Non è un dato di per sé straordinario — si può prevedere in molti modi —, ma vissuto di persona è alquanto stupefacente. Fragili, arrabbiati, incattiviti, questi uomini ricchi — e sono alla guida del mondo intero.
Per dare un senso a questo dato riscontrato nel reale, ho proposto di fare due chiacchiere a Pietro Izzo, giornalista, docente e autore di Patrilineare, magnifica newsletter che già da un po’ occupa un posto fisso nella lista di Substack che consiglio a chi legge Anche una donna qui:
Pietro è un uomo italiano che non ha avuto paura di constatare e ammettere che gli uomini italiani hanno avuto vita più facile delle donne italiane. Il percorso che Pietro ha intrapreso per se stesso lo ha portato a capire che il disagio che naturalmente si prova di fronte a questo fatto non va rinnegato, ma è un’opportunità di trasformazione. Pietro ha accettato di prendersi una responsabilità. Ha deciso che valeva la pena scavare nel profondo delle disuguaglianze di genere, per comprendere i meccanismi che permettono loro di riprodursi senza tregua e riuscire a scardinarli. Reputo Pietro una delle voci maschili più autorevoli, autentiche e originali nel dibattito sul ruolo degli uomini nella lotta alle disuguaglianze di genere. È per questo che sono andata da lui, per mettere ordine nei pensieri di fronte a quanto osservato.
Il dialogo che segue si è tenuto in videochiamata ed è stato condensato per ragioni di lunghezza e chiarezza. Le parole attribuite a Pietro sono comunque riportate tali e quali, perché io sono visceralmente contraria alla pratica tutta italiana dei virgolettati inventati.
Enrica: cosa pensi di quanto ho osservato nella mia esperienza di conversazione con certi uomini bianchi e benestanti, alla luce del tuo lavoro di riflessione e creazione di consapevolezza? Da dove deriva la fragilità degli uomini ricchi?
Pietro: Non la vedrei come una fragilità. L’esigua percentuale di persone che sono maschi bianchi benestanti è culturalmente il genere dominante — che poi, in realtà, è un non-genere; queste persone non si percepiscono mai come un “genere”: il genere sono tutti gli altri, i diversi dalla “norma” —, è sempre storicamente stata raccontata come il mondo intero. La storia e le storie sono sempre state raccontate dal punto di vista di queste persone. Loro evidentemente non hanno niente da perdere a livello economico, però sentono di avere molto da perdere a livello culturale. Diventa veramente una questione identitaria, più che economica, più che di perdita di chissà quali privilegi reali. È una questione di perdita di identità, cristallizzata in un modo che non si vuole che cambi, mentre tutto attorno a te spinge perché la tua identità cambi un pochino: anche solo a livello di prendere consapevolezza che sei un genere tra tanti generi, senza contare le varie intersezioni con razza, censo, eccetera.
C’è consapevolezza da parte di queste persone della dinamica in atto, oppure è una reazione più subconscia, per cui senti che attorno a te sta accadendo qualcosa, ma non sai come definirlo? Qual è il rapporto tra consapevolezza e subconscio in questa dinamica?
Credo che ci sia un 90% di persone che vivono questa cosa a livello subconscio, non avendone la piena consapevolezza, e invece un 10% di persone che la vivono con perfetta consapevolezza e anzi, magari sono quelli che inquinano le acque e pilotano le reazioni di resistenza. Un esempio è Steve Bannon (personalità di spicco dell’ultradestra statunitense, già capo stratega della Casa Bianca e consigliere di Trump durante la sua prima amministrazione, ndr).
L’aggressività è una metafora? Gli uomini bianchi e benestanti sono abituati ad avere tanto spazio nel mondo. L’aggressività è l’espressione fisica, comportamentale, della rivendicazione dello spazio che gli spetta.
Sì. Il maschio bianco etero è sempre stato abituato a prendersi tutto lo spazio disponibile, perché nessuno gli ha mai detto che quello spazio non poteva essere occupato da lui, da livelli minimi — tipo sedersi sbracato sul treno o sull’aereo — a livelli più profondi di occupazione del mondo della cultura e della politica. Se in questi ultimi dieci anni, soprattutto, ci sono state maggiori rivendicazioni da parte di altri tipi di soggettività, dalle donne, alla comunità LGBT, alle persone disabili, se qualsiasi tipo di minoranza che ha subito discriminazione fa sentire la propria voce, allora vuol dire che toglie spazio a me.
Quando parlo con una persona come Harmon, di solito lo faccio come giornalista. Per tirare fuori quanto più possibile dal mio interlocutore, mi conviene mantenermi dal lato dell’argomentazione logica, dei dati, invece di aggredire a mia volta (a parte che non ne sono capace, non è il mio carattere!). Questo però non rende le cose semplici, perché sento di essere in presenza di un’ingiustizia. Mi sembra di non fare abbastanza se non dico al mio interlocutore: sei una testa di…! Tu ne parli spesso su Patrilineare: cosa si può fare per ammorbidirli? Se non mi fossi posta come giornalista, cosa avrei potuto fare per tenere testa a questo tipo di conversazione in maniera produttiva?
Mentre parlavi mi veniva da risponderti: tu, ben poco! (ride, ndr), perché in realtà bisognerebbe che i maschi si parlassero tra di loro in un certo modo. Nella fattispecie del dialogo con questa persona che hai incontrato, ti dico una cosa che neanche io riesco sempre a mettere in atto: bisognerebbe evitare di dirgli “sei una testa di…”. Bisognerebbe dirgli: come mai pensi questa cosa? Perché pensi che le minoranze non meritino nessun aiuto? Perché ti sembra che tolgano qualcosa a te? Bisognerebbe spingerli ad argomentare di più. Poi magari c’è chi non ha argomentazioni, oppure c’è invece qualcuno che si apre. Bisogna spingerli a parlare di più della loro esperienza personale, vedere se dietro c’è una rabbia, una ferita, una paura, un dolore. C’è questa cosa propria del maschile, che è la difficoltà a esprimere quello che uno ha dentro. Se devo esprimere qualcosa la esprimo con rabbia, denigrando. Se invece si riesce a parlare con calma… però questa è una roba che forse riescono a fare gli psicoterapeuti (ride, ndr).
Da un punto di vista collettivo, invece, cosa si può fare?
A livello di società il problema è che la cultura patriarcale non la butti giù con uno schiocco di dita. Ci stanno volendo decenni. Ora mi sembra che qualcosina si muova, però il punto è semplicemente che noi uomini siamo socializzati così: non dobbiamo parlare, non dobbiamo esprimere quello che abbiamo dentro. Vedo che molte persone di sesso maschile hanno amicizie femminili con cui confidarsi, ma tra maschi non ci si confida. Invece è quello che servirebbe: che ci parlassimo un pochettino di più tra noi, non solo di quello che facciamo; tra maschi ci si trova sempre per “fare”: giocare, progettare, ma è difficile che ci si trovi per chiacchierare. Si tende a pensare che parlare di quello che uno prova è una rottura di palle. Non ne parli mai, poi quello che tieni dentro si trasforma in azioni poco carine. È questione di parlarsi tra noi e invece di rifarsi a un modello di cameratismo, aspirare a un modello di fratellanza (qui Pietro ha approfondito la dicotomia cameratismo/fratellanza, ndr).
Grazie del tempo che hai dedicato e della profondità che hai condiviso con Anche una donna qui, Pietro, del tuo lavoro prezioso e dell’umiltà con cui lo porti avanti!
Non pensate al bancone del bar di un ristorante in Italia, dove al massimo si beve il caffè postprandiale. Il bancone del bar di un ristorante negli Stati Uniti è un luogo di convivio e consumo dei pasti al pari dei tavoli in sala, ideale per chi mangia da solə e magari ha voglia di fare due chiacchiere con lə vicinə, come me.
Diverse analisi da parte di fonti autorevoli (Foreign Policy, University of Chicago) hanno comunque evidenziato che il profilo degli insurrezionalisti del 6 gennaio è stato più vario di quel che spesso si pensa: a insorgere al Campidoglio c’erano anche tantissimi professionisti da cosiddetto “colletto bianco”.
Grazie mille per la tua riflessione; mi sembra di rilevare un certo pattern anche nella mia personale esperienza. Un punto mi colpisce molto:
"Gli uomini bianchi e benestanti sono abituati ad avere tanto spazio nel mondo"
La questione dell'occupazione di spazio, in senso quasi filosofico, l'ho ritrovato proprio in questi giorni, leggendo l'ultimo libro di Timothy Morton (su cui sto provando a scrivere qualcosa che spero di poter pubblicare) in cui ironicamente argomenta che lo schiavo perfetto si trasforma nel padrone perfetto, quello di cui non è possibile più fare a meno. L'idea di Morton mi sembra essere che la modalità dei marginalizzati - gli schiavi - sia una forma di "perdono" radicalizzato che enuncia una forma di condanna implicita e silente degli uomini bianchi e benestanti - i padroni. Mi chiedo se sia questo il motivo della aggressività viscerale di questi ultimi. Morton scrive che perdonare vuol dire "fare spazio per..." e quell'aggressività mi sembra proprio la risposta a questa riappropriazione "mite".
Perdona la prolissità, ma leggendoti ho sentito un riverbero di pensieri.
Che double feature apprezzato, grazie. Sono dell'idea che la cultura del "ti blasto" social abbia fatto davvero molto male alle tematiche culturali complesse come questa. Forse un "perché pensi questo?" ogni dieci "ma vai a cagare" potrebbe già fare qualcosa. Che pazienza, però.