Viaggio nella coscienza di genere in Italia: un estratto del mio (forse, chissà, vedremo) libro
Il processo di scrittura è difficile, tortuoso, sfuggente. Il termine del progetto sembra irraggiungibile. Chissà cosa succederà offrendo queste parole a voi!

Oggi, in quella che vista la lunghezza sarà l’ultima edizione di Anche una donna qui del 2024 così avete il tempo di consumarvela durante la pausa festiva (inserisci commento ironico e autocritico tipicamente femminile su come sicuramente avrete di meglio da fare), faccio una mossa vulnerabile e pazzerella.
Condivido alcuni estratti dal libro che sto starei scrivendo sul mio viaggio nella coscienza dellə italianə sulla parità di genere, accompagnata da una editor fantastica e dal sostegno concreto di almeno una persona che mi sta aiutando nella ricerca di editore, per la cui fiducia sono immensamente grata.
Condivido come parte del processo di creazione. Sono curiosa di vedere cosa succederà liberando queste mie parole nell’universo: che scintilla scatterà dal loro incontro con voi che leggete, e che effetto questo incontro avrà su di me e sull’evoluzione del progetto.
Condivido anche perché il processo di scrittura si sta rivelando davvero faticoso. Nulla di cui stupirsi: è la prima volta che mi misuro con la scrittura di un libro e a questo progetto ho attribuito un enorme carico emotivo, tant’è che la fatica è uno stato d’animo che lo ha caratterizzato sin dalle origini.1
A livello emotivo, è un’esperienza molto diversa dalla scrittura di questo Substack, che mi viene più naturale e con cui raggiungo regolarmente uno stato di flusso e, genuinamente, mi diverto. Con il libro, invece, mi capita spesso di languire nell’agonia. So per certo che non si tratta di un vizio della mia scrittura, ma c’è qualcosa di “psicologico” in ballo.
Chissà, forse gettare qualche semino nell’universo porterà un qualche frutto, che sia l’opinione spassionata di qualcunə di voi che sbloccherà un’intuizione, oppure un commento che mi aiuterà a trovare fiducia per proseguire (o, al contrario, rinunciare!), oppure l’evoluzione e il chiarimento di un’emozione complessa incastrata da qualche parte dentro di me.
Se il rischio di far dipendere le mie decisioni dalle opinioni esterne c’è, non mi illudo di trovare in voi la convalida dei miei sforzi e la legittimazione ad andare avanti. Perché siano autentiche e portatrici di vero frutto, convalida e legittimazione possono provenire solo da me stessa. Ma sono anche fermamente convinta che lanciare le mie parole nel mondo un qualche cambiamento lo produrrà. Resta da vedere che faccia avrà, questo cambiamento, ma mi accomodo in posizione di curiosa e trepidante attesa.
Se sei o rappresenti un editore e ti interessa pubblicare il mio lavoro, oppure hai consigli o indicazioni serie in merito, contattami in privato. Grazie!
Ho iniziato a progettare questo libro un anno e mezzo fa come primo passo per muovermi da una carriera nei prodotti tecnologici di notizie (in cui facevo cose come questa, questa, questa e questa) alla scrittura pura e semplice, che è la mia vocazione ma anche un lusso che non avevo mai creduto di potermi concedere.
Per quanto non abbia niente da rimproverarmi, tornassi al momento in cui ho deciso di abbandonare la carriera aziendale per dedicarmi alla scrittura diminuirei l’enfasi che ho dato al libro. Nell’entusiasmo per la componente liberatoria di scelte che finalmente mi avrebbero avvicinato di più a chi sono veramente, con amichə e colleghə e anche me stessa ho involontariamente identificato il libro con l’obiettivo della mia svolta professionale, invece di un passo con cui essa si realizza — uno di tanti. Il risultato è che ora molte persone alla domanda “cosa fa Enrica” rispondono “scrive un libro”, quando la risposta corretta è “scrive”. Il libro è una cosa. Scrivere è la cosa.
Nelle ultime settimane, mi sono sorpresa a pensare che sarei più libera senza questo progetto sulle spalle. Ho passato una vita intera a obbligare me stessa a portare cose a compimento. Il significato di perfezionismo, nella mia esperienza, è del tutto etimologico: da perficere, portare a termine. La perfezione a cui tendo è, letteralmente, la fine: è solo alla fine, quando avrò finito (qualsiasi cosa), che potrò rilassarmi. (In sostanza, mai.) Crescere, per me, non significa diventare più disciplinata. Di disciplina ne ho così tanta che spesso si trasforma in dannosa rigidità. Nella mia vita la crescita equivale invece a sviluppare la capacità di togliere, semplificare, rinunciare, accettare di non portare a compimento.
Il problema è che non portare a compimento il libro significa abbandonare un progetto unico che credo fermamente abbia un valore originale da aggiungere al discorso sulla parità di genere in Italia. Ora come ora, penso che sarebbe un errore, innanzitutto nei confronti di me stessa.
Allo stesso tempo, la fatica non mi abbandona mai, e trascinarla sta diventando sempre più… faticoso. E sebbene non ci siano limiti di tempo né scadenze — almeno finché il progetto rimane indipendente, e potrebbe rimanerlo per sempre — c’è una componente temporale che àncora il progetto al presente e all’Italia come la conosciamo e ne facciamo esperienza oggi. Allungare ad infinitum il tempo della scrittura potrebbe privare il libro di valore e pertinenza.
Ora che avete tutto il contesto, vi lascio alla lettura. Ringrazio sin da ora chi avrà voglia di portarla a compimento (senza stress!) e di regalarmi un qualsiasi tipo di riscontro, che sia per Natale o tra qualche mese 😊 ci risentiamo nel 2025.
Buone feste a tutti, e a chi come me lo festeggia il 25 dicembre, buon Natale!
Note per la lettura:
Gli estratti riportati sono bozze. Non sono ancora stati revisionati da terzi ed è probabile che non verranno pubblicati tali e quali nella versione finale del libro.
“[…]” segnala la presenza di altro testo nella bozza che non è qui riportato.
La scelta vulnerabile di offrirvi le mie parole non è un lasciapassare per chiedermi “come va il libro?” nei prossimi mesi, a meno che non siate professionistə della parola e cerchiate un confronto pertinente. Se siete solamente amichə curiosə, preferirei che teneste la curiosità per voi in segno di rispetto per il mio spazio privato di creazione. Grazie della comprensione!
Estratto dal Prologo
Piove da un cielo triste mentre arranco verso l’autostrada in partenza per il mio viaggio. Il limite di velocità di trenta chilometri orari è in vigore a Bologna da appena un giorno. Due nutrite pattuglie della Municipale sorvegliano il traffico di via Felsina per possibili contravvenzioni. Alcunə autistə dietro di me non se ne accorgono: irritatə dalla colonna di macchine che si forma strombazzano prepotentemente. L’impazienza stradale che aleggia nel grigio delle otto di questa mattina d’inverno intensifica l’inquietudine per il guaio gigantesco in cui le mie stesse mani mi hanno ingarbugliato. Viaggiare per tutta l’Italia, da Nord a Sud passando per il centro ed entrambe le isole, intervistando persone incontrate casualmente per strada, in bar e ristoranti, nei parchi, fuori da scuole e uffici, sul tema della parità di genere, spinta dalla convinzione che nel nostro Paese manchi una coscienza collettiva sull’importanza di creare una cultura di rispetto e valorizzazione della libertà e della dignità delle donne.
Chi sono io per portare avanti un’avventura così e come la giustifico? Soprattutto – il dubbio mi attanaglia – riuscirò mai a raggiungere il mio vero obiettivo? Prevedo di incontrare tante persone che minimizzano o addirittura negano l’esistenza di un problema e delle ingiustizie di cui le donne sono vittima ogni giorno in Italia. A partire dal contatto umano con queste persone, vorrei generare una riflessione dal basso su come possiamo creare questa coscienza collettiva sulla libertà della donna che ancora non c’è. Se però non trovo nulla di interessante da raccontare, che ne sarà del mio viaggio?
[…]
Tentenno nell’ironia della mia insicurezza. Il mio viaggio è a tutti gli effetti un’espressione di autonomia e indipendenza femminile, progettato e finanziato da una donna per contribuire alla liberazione delle donne nel Paese che l’ha creata e cresciuta. Io ci credo veramente, che per creare una coscienza collettiva sulla parità di genere sia necessario partire dal basso, mettendosi in posizione di ascolto autentico e privo di giudizio, creando spazio per curiosità, sorpresa e stupore – rimanendo comunque salda nei valori della parità di genere – anche di fronte a chi mostra indifferenza e disinteresse e non percepisce l’importanza di questo argomento. Chissà che tipo di rapporto umano si potrà creare tra me e queste persone, che prospettive potrà aprire, quali possibilità di crescita offrirà?
[…]
Mentre spingo l’acceleratore dell’auto presa in prestito da mia mamma, dubito di essere del tutto autorizzata a proseguire. Temo di non essere presa sul serio, derisa e ritenuta completamente folle – dagli altri e da me stessa – per aver intrapreso un viaggio così grande e complesso, giovane giornalista e scrittrice che di questo progetto visionario è l’unica mandante, senza testate giornalistiche (come in episodi precedenti della mia carriera) o editori alle spalle. Temo di inseguire un’intuizione troppo ingenua che priva il viaggio di una vera destinazione.
Ovviamente c’è già una storia da raccontare, nella paura di reclamare per me stessa il diritto a questo viaggio e alla solitudine con cui lo conduco. Ma non ne sono convinta, così come non sono convinta che riuscirò a trovare qualcosa di straordinario per la strada. E se così, non avrò niente di valido da offrire a chi mi leggerà. La prospettiva è agghiacciante.
Imbocco l’A14 in direzione sud con la sensazione di entrare in un abisso.
Estratto dal Capitolo 2
Le dolci colline delle Marche mi accolgono sotto un cielo terso che contribuisce ad appianare un poco l’inquietudine con cui sono fuggita dal centro di Bologna.
È in un piccolo paese dell’entroterra della provincia di Fermo, quando ancora era sotto Ascoli Piceno, che è stata eletta una delle prime sindache d’Italia. Prima di visitare questo paese passo qualche ora in quello accanto, Montegiorgio, sollecitando pensieri sulla partecipazione femminile alla politica e al mondo del lavoro e sui meccanismi per incentivarla.
“La quota è una cosa vergognosa”. Massimo, fruttivendolo di 51 anni, infila risposte prima che io finisca di formulare domande. “Meritocrazia, punto. Non esiste quota. Se uno è bravo va avanti, se non è bravo no”. Massimo non sa che il paese accanto al suo ha eletto una delle prime sindache d’Italia. “Può essere”, replica con un’alzata di spalle, indifferente all’aneddoto storico: “È importante eleggere un sindaco che sia capace. Poi se donna o uomo va benissimo entrambi”.
Il negozio di ortofrutta di Massimo occupa due vetrine sotto a un porticato che affaccia su una piccola piazza. È l’unica sorgente di luce che incontro esplorando la parte alta di Montegiorgio nel buio del tardo pomeriggio invernale. Il fruttivendolo è affabile – mi chiede scherzando se è stato all’altezza dell’intervista – ma si mantiene distaccato. Mi intima di spegnere il registratore “per una questione di privacy” quando entra una cliente, che saluta per nome. “Eh, che vuoi dire sulle donne… Si lavora, si porta avanti la famiglia”, sospira Alba mentre acquista tredici euro e settanta di mele, arance e minestrone. L’intimità di una transazione ortofrutticola di paese mi solleva. Sento distendersi la tensione delle ore precedenti: la dimensione piccola e familiare mi mette a mio agio in una maniera che la mia Bologna aveva negato. Intuisco che sarà proprio in posti come Montegiorgio che intratterrò le relazioni umane più genuine, con più tempo a disposizione per andare a fondo.
Massimo ribadisce che “la quota va conquistata con la capacità”. Perciò gli chiedo come dobbiamo interpretare le statistiche dell’Unione europea secondo cui a livello di partecipazione al lavoro delle donne l’Italia riporta costantemente i risultati peggiori di tutti i ventisette stati membri – 31% nel 2023, venti punti percentuali inferiore al tasso di partecipazione al lavoro degli uomini (51%). Significa che le donne sono meno capaci degli uomini?
“No. Questo significa che… un po’ per tradizione, un po’ per… per non so quali altri motivi, le donne preferiscono… sono più casalinghe che altro”, risponde Massimo. “Suppongo che sia semplicemente una cosa di tradizione”.
Nel tono di voce di Massimo non c’è solo esitazione nella ricerca di una risposta, ma avverto anche lo stesso tono di indolenza che così spesso incontro tra lə italianə quando, in particolare sui social media, si discute di parità di genere. L’infimo tasso di partecipazione delle donne italiane al mondo del lavoro retribuito e la tradizione che le relega al lavoro casalingo sono temi critici e complessi. Eppure, cosciente o meno, Massimo descrive la prima come una preferenza e la seconda come un fenomeno che accade semplicemente. Tuttavia, non è con malizia che Massimo si lava le mani della tematica: è con disinteresse, perché il problema, secondo lui, in fondo non si pone. È solo una questione di tradizione.
Massimo mi spiega che la moglie è “più capace” di lui, fa un lavoro “più importante” (l’avvocata) e guadagna “molto più” di lui. Il fruttivendolo cita il particolare assetto economico della sua famiglia (raro in Italia: secondo una ricerca di Episteme del 2019, solo il 21% delle donne percepisce uno stipendio più alto del partner) a più riprese durante la chiacchierata come prova che con una moglie che porta a casa più denaro, lui non può essere uno di quegli uomini che secondo lui si sentono un gradino sopra: “Purtroppo in Italia ci sta la mentalità per cui la donna è comunque… non lo so, io non ce l’ho questa mentalità, quindi non posso… non saprei neanche come spiegarglielo”. Massimo di Montegiorgio come Fabio e Matteo di Bologna [personaggi che incontriamo nel primo capitolo, ndr]: urgente è la premura di rimarcare che lui non ha niente a che vedere con la cultura di sistematica subordinazione delle donne in Italia.
Dall’ortofrutta di Massimo discendo vicoli bui fino a un bar che avevo adocchiato parcheggiando la macchina. Un bar all’ora dell’aperitivo è un porto sicuro, non solo per trovare persone da intervistare, ma anche per assecondare l’eventuale timidezza nell’approcciarle. Posso sempre temporeggiare ordinando un drink.
Ma in questo bar di Montegiorgio non ne ho bisogno. Un bambino con le luci sotto le scarpe corre tra la sala e il bancone, dove torreggia una donna con un gilet di pelliccia nera e le mèches rosa che mi accoglie come se mi stesse aspettando. La sintonia con Federica, 55 anni, è immediata: nega categoricamente l’invito a un’intervista, ma offre volontario il figlio Yari lì presente. Poi, con quel “faccio io” che quando si tratta di cibo promette sempre cose buone, si ritira a prepararmi un tagliere di salumi e formaggi del territorio.
Yari, classe 1990, barba folta, felpa grigia con il cappuccio e pantaloni blu della tuta, fa l’operaio in una fabbrica di tubi. È il papà di Thomas, il bambino di quattro anni che scorrazza per il locale, e Marilù, quattro mesi – “Ho un maschio e una femmina, dato che parliamo della parità dei sessi!” – e il compagno di Laura, 37 anni, che come la suocera declina la richiesta di un’intervista.
Sono in viaggio da poche ore ma ho già riscontrato una differenza nella volontà di uomini e donne di prestarsi a un’intervista. La maggior parte degli uomini a cui ho chiesto di chiacchierare finora hanno accettato senza esitazione. Le donne invece si sono ritratte, a volte in maniera secca (“Fai la domanda alla persona sbagliata”, mi ha fulminato una barista di mezza età in centro a Bologna), ma soprattutto ridendo impacciate: la performatività di un’intervista al registratore di una giornalista non fa per loro.
Mentre intervisto Yari, Laura ascolta in piedi dietro di me, commentando ogni tanto le risposte del compagno. Eppure, a un mio secondo invito a partecipare formalmente all’intervista scuote la testa: “No, no, lascio parlare lui”. Più tardi, mentre pago, Federica mi dirà: “Io la penso un po’ diversa da mio figlio, però…” Però non ha voglia – o forse tempo, o forse convinzione di avere qualcosa da dire – di prendersi lo spazio per illustrare i suoi pensieri.
L’atteggiamento di sottrazione di Laura e Federica mi fa pensare alla rassegnazione con cui Alba dal fruttivendolo aveva sintetizzato la condizione femminile dalla sua prospettiva: “Si lavora, si porta avanti la famiglia”. Rassegnazione e sottrazione si collocano sullo stesso continuo concettuale per noi donne: accettiamo un ripetitivo ruolo di secondo piano che determina tante successive scelte di invisibilità, anche quando ci viene offerto il ruolo di protagonista, perché è ai lati che siamo state condizionate a rimanere.
Gli uomini invece, abituati al centro della scena, nella performatività si buttano con entusiasmo. Yari è una macchietta e acconsente all’intervista di buon grado. Benché ci separino esperienze di vita completamente diverse e gli accenti marchigiano ed emiliano, Yari e io abbiamo solo un anno di differenza e l’appartenenza alla stessa generazione riduce il divario. Yari sostiene che sia importante eleggere donne in politica perché “sono state sempre viste facce, cioè figure maschili e quindi bisognerebbe anche dare spazio alle donne”.
“Ma secondo te perché?” domando.
“Secondo me c’hanno la mente più aperta, vedono le cose nel migliore dei modi”, spiega Yari. Dalle retrovie sento Laura dire che “sono più lungimiranti le donne”. Yari aggiunge: “È vero che le donne c’hanno più marce, non una, ma anche cinque, di un uomo”. Con la coda dell’occhio colgo Laura annuire. “Anche solo, per dirti, un segreto la donna sa tenerlo”, continua Yari. “Invece l'uomo, in sé e per sé, anche un segreto banale dopo poco tempo anche al suo migliore amico lo confida. Invece la donna un segreto lo tiene solo per lei”.
“Ho perso il filo”, lo interrompo confusa, perché non ho capito il collegamento tra il tenere un segreto e avere una marcia in più.
“Gli uomini so’ più deboli delle donne”, chiarisce Laura.
“Sì, sì, il succo era questo”, conferma Yari.
In effetti dà soddisfazione, sentire il proprio compagno ammettere che tutto quello che facciamo è indice di un super potere. È una ricompensa, che per tante donne sembra sufficiente.
Non conosco Laura, non so quale sia la sua storia, se lavori o stia a casa a prendersi cura di Thomas e Marilù, quanto forte senta la sua identità femminile in un mondo che si diverte a schiacciarla. Ma posso immaginare i suoi sacrifici di donna e madre della classe lavoratrice, quattro anni più grande del compagno, rispetto al quale sembra avere una personalità meno scherzosa e più composta. Avrei voglia di girarmi verso Laura e dirle che non si deve accontentare che la società le dica che noi donne abbiamo una marcia in più per ripagarla dei suoi sacrifici. Vorrei darle un autentico abbraccio di sorellanza femminista, spiegandole che “la donna ha una marcia in più” è una forma di sessismo benevolo: una gentile concessione, un contentino mascherato da complimento.
Vorrei leggere a Laura tutta la letteratura femminista in merito: “Il sessismo benevolo [...] proclama una presunta, illusoria superiorità femminile, per cui il maschio è al servizio della femmina”, argomenta Valeria Fonte in Ne dice più la lingua. “Non è gentilezza [...] perché cela una discriminazione positiva: il trattamento preferenziale riservato a persone che ‘hanno bisogno di attenzioni speciali’ perchè considerate socialmente svantaggiate”. Scrive Giulia Blasi in Manuale per ragazze rivoluzionarie: “Siamo brave, bravissime, meravigliose, meglio attrezzate a cogliere la complessità. [...] Il sessismo benevolo offre alle oppresse un motivo di rallegrarsi della propria oppressione. Le colloca su un piedistallo, poi le lascia lì”.
La società ci loda per avere una marcia in più – citando capacità supereroiche di lavorare poi recuperare la prole da scuola poi dare loro la merenda mentre si passa l’aspirapolvere prima di preparare la cena dopo aver stirato le camicie del marito – per espiare la colpa dell’oppressione patriarcale senza poi impegnarsi per smantellarla, anzi: perpetuandola nel tempo e nello spazio. Le lodi per le presunte marce in più non solo non ci devono bastare, ma dobbiamo anche rispedirle al mittente, assicurandosi che capisca il perché.
Vorrei dire tutto ciò a Laura, ma non è questo il ruolo che ho scelto per me durante questo viaggio. Sono qui per ascoltare, osservare, assorbire. E soprattutto, voglio lasciare spazio alla famiglia che per prima, durante il mio viaggio, ha creato uno spazio in cui mi sento finalmente sicura e al sicuro. Federica, Yari e Laura mi hanno presa sul serio dopo diverse ore vissute in preda al dubbio di non potermelo meritare, uno spazio del genere. Nessuno di loro sta mostrando particolare coscienza di genere, ma il terreno è fertile, e voglio continuare a scavare e avvicinarmi.
“Noi uomini non vogliamo riconoscerlo”, ammette Yari sul fatto che le donne avrebbero supposte marce in più. A differenza di Massimo, che parlava di uomini in terza persona, Yari include anche se stesso nel gruppo; rimane comunque la sensazione che stia parlando di qualcosa che è altro da sé. Gli chiedo quindi come percepisce il suo ruolo di maschio rispetto alla condizione femminile in Italia. Risponde in obliquo: “Dopo che c’è stata la parità dei sessi, per me siamo tutti uguali”.
“Dopo che c’è stata? Questo significa che c’è adesso?”
“Certo.”
“Da quando c’è? Tanto non c’è risposta né giusta né sbagliata”, lo rassicuro.
“Domanda da un milione di punti”, esita Yari, la certezza delle risposte precedenti svanita nel nulla. “Boh. Io penso che francamente non c’è mai stata. Perché l’uomo dice che l’uomo sta sempre sopra la donna, perlomeno da come la vedo io”.
Mi vengono in mente certe interrogazioni al liceo, in cui l’interrogatə produceva strafalcioni così grossolani da causare l’ilarità della classe intera, insegnante compresə. La mia intervista non ha il tono di un’interrogazione scolastica, anzi – qualsiasi dubbio Yari potesse avere sul modo in cui mi pongo è presto dissipato quando chiedo a Federica un secondo calice di prosecco – ma Yari è proprio quello studente lì: zoppica, si contraddice, si arrampica su specchi in cui non sembra essersi mai riflesso.
La parità di genere è un concetto con cui è chiamato a misurarsi a sorpresa qui e ora, senza avere mai aperto libro: “Se ne parla più spesso perché prima non c'è stato mai questo, diciamo, interloquiare della parità dei sessi. Adesso che [...] è venuta fuori questa parità dei sessi, allora la gente ne parla un po’ di più, giustamente”. Il sessismo benevolo riaffiora nelle sue parole elevato al grado di adagio storico: “Io sono sempre del parere che, come si dice, un detto anche storico, che una donna non si toccherebbe nemmeno con un fiore. E quindi questa cosa secondo me deve essere portata avanti in eterno”.
Poi c’è la risposta che mi dà quando gli domando se è importante usare il femminile “sindaca”: “Questa è una bella domanda, perché anche se donna è sempre sindaco”. Beh, oddio, sarà pure una sindaca, no? “Secondo me, quando viene presentata, non penso che gli venga detto sindaca”.
Non sarà l’ultima volta che sul tema del linguaggio inclusivo sentirò questo tipo di ragionamento: come se le parole tradizionalmente associate all’autorità maschile, quali “sindaco”, non fossero segni linguistici alla pari degli altri, ma l’espressione di un potere talmente tanto cristallizzato, dato per scontato, dalla forma così rigida, che non è suscettibile di declinazione grammaticale. Ed è per questo che non voglio cadere nell’errore di liquidare la risposta di Yari come ignorante. No: l’Italia è piena di persone colte e plurilaureate a cui “sindaca” suona male. Per ricordarsi che “sindaco” prende il femminile tanto quanto “segretario” non basta ripassare la grammatica; è il patriarcato che predica l’inamovibilità del potere maschile, l’obiettivo su cui dobbiamo concentrarci.
“Ti definiresti mai femminista?” domando a Yari.
Lui esita, poi dice di sì.
“Cos’è per te il femminismo?”
Cala il silenzio, scoppiamo in una risata imbarazzata.
“Alla donna bisogna portare rispetto”, Yari torna serio. “Al giorno d'oggi è difficilissimo perché, cioè, basta anche che esci al pub a farti una birra che ci stanno sempre delle tentazioni diciamo, però ecco, dopo è uno che deve scegliere se cadere nel tranello oppure no”.
Ed è proprio su questo tranello – l’idea della donna come oggetto di tentazione che l’uomo, da lei ammaliato, deve conquistare – che Yari inciampa diverse volte durante la nostra conversazione: “Prima per ricevere un bacio una ragazza delle volte non bastava una serata. E alla fine, quando ti dava un bacio, andavi a casa felicissimo e dicevi sì, ce l'ho fatta, no? Adesso vai in discoteca, la maggior parte [delle donne] non c’ha le mutande, lo fai e poi nemmeno dici come ti chiami”. Sul doppio standard che attribuisce il massimo rispetto all’uomo che “conquista” tante donne e lo toglie completamente alla donna che “si dà” a tanti uomini, Yari confessa: “Prima lo pensavo anch’io. Però, cioè, alla fine le cose si fanno in due. Se lei è porca, alla fine, anche tu…”
Porca. Subordinata come una frase ipotetica, ma principale colpevole di far avverare l’ipotesi.
[…]
È buio pesto quando rientro all’agriturismo in cui alloggio, una struttura di mattoni chiari con una meravigliosa vista sulle colline brulle del fermano. Sono l’unica ospite in questo periodo di bassa stagione: neanche i proprietari, una famiglia di sardi, passano la notte in loco. Avere un posto così tutto per me, a mia completa disposizione, mi piace e mi intimorisce. Il senso di possibilità è immenso, lo spazio ricco di opportunità da riempire con la fantasia. Ma a farmi compagnia fa capolino anche l’angoscia del vuoto e dell’oscurità che mi circonda.
Chiudo le tende blu della mia stanza e rifletto sulle due ore che ho passato al bar di Montegiorgio. Dall’intervista con Yari sono emerse tante manifestazioni della mancanza di una coscienza sulla parità di genere: il sessismo benevolo, il linguaggio volgare mascherato da goliardia e, soprattutto, quella forte sensazione che la persona che ho avuto di fronte non abbia mai veramente pensato a questi temi, non sia mai stata esposta a riflessioni di questo tipo fino al momento in cui ho acceso il mio registratore.
Come faccio a pensare che una persona come Yari non contribuisca al perpetuarsi in Italia di una mentalità che opprime le donne e ne sopprime la libertà? Non riesco a pensarlo, infatti. Forse non lo farà apposta – in pochə si svegliano la mattina pensando “oggi vado a limitare la libertà delle donne!” – ma per avere una coscienza collettiva sulla parità di genere non basta non (voler) fare del male. Bisogna aver capito l’origine del problema, approfondire la natura delle conseguenze, maturare la consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie responsabilità, e si sente quando una persona ha compiuto questo tipo di percorso. Yari non l’ha fatto.
Ma c’è un problema.
Il problema è che Yari, insieme a Federica e Laura, mi ha fatto sentire a casa al bar di Montegiorgio, meno di settemila abitanti in provincia di Fermo, in una maniera che nei giorni precedenti non avevo provato neanche nella grande città metropolitana e progressista di Bologna in cui sono nata e cresciuta. Yari, Federica e Laura mi hanno accolto con calore, mi hanno dato spazio, hanno acconsentito a parlarmi con semplicità, umiltà e bontà. Soprattutto, mi hanno presa sul serio: e io mi sono messa in viaggio proprio perché le donne non sono prese sul serio.
Io con Yari, Federica e Laura sono stata bene. E quindi si crea un dilemma non da poco: io non sono d’accordo con le affermazioni di Yari sulla parità di genere e le ritengo a tutti gli effetti parte del problema, esempi chiari di ciò che ci separa da una coscienza collettiva. Ma come posso non essere d’accordo con la sua umanità? Come posso conciliare lo sconforto che ho provato di fronte a certe risposte, e il conforto che lo stare insieme alla famiglia del bar di Montegiorgio mi ha dato, sostenendo, spronando e prendendo sul serio la mia libertà di donna sola nel portare avanti la mia avventura?
Attenzione, non è di uno scambio di favori guidato da un senso di colpa che stiamo parlando. Yari e famiglia mi hanno voluto bene, mi trovo quindi in debito con loro e la grazia del condono è un modo per ripagarlə, ma nel frattempo le donne continuano a morire anche se Yari assicura che non si dovrebbero toccare neanche con un fiore. Si tratta invece di trovare la linea di confine tra condonare e cooperare, tra chiudere un occhio con una persona che ha gli occhi chiusi e aprirne quattro insieme. Come possiamo – se possiamo – fare leva sulla bontà di un rapporto come quello che si è creato tra me, Yari e famiglia per fare un passo in più verso una coscienza collettiva sulla parità di genere?
Il giorno dopo avrei ricevuto una testimonianza che mi avrebbe suggerito una risposta.
Stupendo! Mi hai tenuta incollata alla newsletter facendomi dimenticare l'accavallarsi delle cose da fare! Non vedo l'ora di leggerlo, hai un modo di scrivere che secondo me può arrivare a tutti, mi piace il modo di intervallare risposte e commenti con riflessioni approfondite e uno sguardo soggettivo ma obiettivo su diverse tematiche.. ma soprattutto la parte narrativa del contesto del viaggio <3 Bravissima!
Cara Enrica, quello che scrivi è interessante, stimolante (e anche problematico, sì) ossia, in una parola: buono! Come buono ti auguro sia il Natale tuo e delle persone a cui vuoi bene, quelle che saranno accanto a te e quelle che saranno lontane. E visto che parli di accettare l'imperfezione, potresti lasciarla al Natale, al Capodanno etc e fare sì che il tuo libro che promette davvero bene diventi, a tempo debito, perfetto. In bocca al lupo!