Seguire virtù e conoscenza, oppure vivere come bruti
Al referendum sulla cittadinanza di questo weekend, la scelta (dantesca) è questa
Nei primi vent’anni di utilizzo dell’istituto giuridico del referendum abrogativo in Italia, era norma raggiungere il quorum necessario per rendere valido il risultato della consultazione, e quindi applicare la chiara volontà del popolo votante alle leggi in oggetto.
Con l’eccezione della tornata del 3-4 giugno 1990 — saranno state le imminenti notti magiche a distrarci da caccia e fitofarmaci, oggetto dei tre quesiti — alle urne dei referendum abrogativi si è sempre recata la maggioranza del popolo italiano avente diritto di voto, benché l’affluenza fosse di volta in volta sempre più bassa. Dall’87,7% (!) della consultazione sul divorzio del 1974, l’affluenza è scesa costantemente fino a raggiungere poco più del 57% (trenta punti percentuali in meno) ai dodici quesiti del 1995.
Il giro di boa è avvenuto il 15 giugno 19971: da allora, il raggiungimento del quorum ai referendum abrogativi è diventato l’eccezione (verificatasi nel 2011). Otto su nove referendum abrogativi sono risultati invalidi. La china dell’affluenza è rimasta costante: a fine anni ’90/inizio 2000 si aggirava intorno al 30%; all’ultimo referendum del 2022 si è fermata a un misero 20%.
Il 15 giugno 1997 mia sorella aveva tre giorni; ora ha quasi 28 anni. Perdonate il riferimento familiare che ha senso solo per la sottoscritta, ma sono queste ancore temporali personali che di solito ci restituiscono la misura di un dato. È la prima cosa che ho pensato, quando mi sono accorta che il trend degli ultimi tre decenni sembra suggerire che anche l’esito dei referendum abrogativi di questa domenica 8 e lunedì 9 giugno potrebbe essere nullo. Nell’intera vita di mia sorella, che tra l’altro è molto impegnata politicamente, l’istituto giuridico del referendum abrogativo non si è (quasi) mai veramente manifestato nella pienezza di senso che rappresenta per la nostra democrazia.
Il principio dell’equivalenza tra l’astensione e il “no” è stato sempre più strumentalizzato dalla classe politica — a destra o sinistra a seconda dei quesiti — approfittando del progressivo calo di interesse della popolazione nella vita pubblica del Paese. Il quorum nei referendum abrogativi è sempre esistito; eppure nel 1981 chi non voleva abolire la pena dell’ergastolo si è svegliatə la mattina di domenica 17 maggio ed è andatə a esprimere la sua preferenza, anche se rimanendo sotto le coperte avrebbe “vinto” comunque (il no ha vinto con la maggioranza del 77%, contro al 22% del sì: se quel 77% fosse rimasto a casa, il tasso di astensione sarebbe stato tale da non raggiungere il quorum).
E ci vollero diversi anni, fino appunto al 1997, prima che il popolo italiano iniziasse a prendere sempre più alla lettera la famosa esortazione di Bettino Craxi a passare domenica 9 giugno 1991 al mare, invece di votare al referendum sulla riduzione delle preferenze per la Camera dei deputati.
Non è solo questione di stare a casa per fare un’immaginaria croce sul no, per non rischiare di raggiungere il quorum quando il sì ha buone possibilità di vittoria. Il punto è che a sempre più persone non interessa dire né sì, né no. L’affluenza è in costante diminuzione ovunque:
Mi chiedo allora a quante persone con diritto di voto in Italia interesserà decidere del destino delle nostre e nostri connazionali di fatto a cui il diritto di voto non è concesso, perché non è loro concessa la cittadinanza che spetta loro tanto quanto a noi.
Vivo le ore che ci separano dallo spoglio delle schede con grande apprensione. Ho molta paura di dovermi sentire, la sera del 9 giugno, come si sono sentite le persone americane la notte del 9 novembre 2016 o quella del 6 novembre 2024. Sono terrorizzata all’idea di dover scoprire che il mio Paese è capace di fottersene della felicità altrui, rinnegare i principi di giustizia su cui dovrebbe essere fondata la nostra società, rinunciare all’anelito di uguaglianza della nostra Costituzione, approfittarsi della sovranità popolare da essa concessaci al fine di, letteralmente, fare del male a persone che hanno diritto all’opportunità di un’esistenza piena tanto quanto chi è natə con la pelle bianca da Giuseppe Rossi e Maria Bianchi.
Quando non acquisita alla nascita, la cittadinanza è il traguardo di una scelta che comporta un percorso di impegno e perseveranza, rinunce e sacrifici, lavoro e sudore, dedizione e amore.
Dire che la cittadinanza è “regalata” a chi ha compiuto o sta compiendo questo percorso in Italia non solo è offensivo, ma anche un grossolano errore semantico. In primo luogo, perché dimezzare il requisito di residenza continuativa in Italia da 10 a 5 anni è solo un punto di partenza; tutti gli altri requisiti rimangono intatti: dimostrare un certo livello di reddito, di essere in regola con il pagamento delle tasse, di conoscere la lingua italiana a livello B1, di non avere precedenti penali. Cinque anni di residenza aprono la porta; non garantiscono l’entrata.
In secondo luogo, perché ci sono milioni di persone nel mondo che non hanno versato una goccia di sudore, una lacrima, un euro per l’Italia ma possono ottenere il passaporto italiano — senza passare per i requisiti di cui sopra! — perché hanno “il sangue giusto” (soprattutto se celebrità).
Mi hanno deluso le polemiche dei partiti di sinistra (per cui voto) sulla cosiddetta “stretta” del governo sullo ius sanguinis, che limita l’idoneità per la cittadinanza italiana alla discendenza di seconda generazione (ovvero con massimo nonne e nonni emigrati dall’Italia). Ne abbiamo già parlato qui: alla vigilia del referendum, il decreto legge sulla cittadinanza è stato palesemente architettato dal governo di destra per convincere l’elettorato che non c’è bisogno di scomodarsi per votare; ci stanno già pensando le elette e gli eletti, a rimediare a limiti e difetti della legge sulla cittadinanza (magari)! Qualificare il decreto legge come “stretta” è anche, seppur non falso, l’ennesima manipolazione semantica, quando per il gruppo di persone i cui interessi in materia contano più di tutti — le persone immigrate, le loro figlie e figli venute al mondo in Italia — la legge sulla cittadinanza del 1992 non è solo già stretta: è soffocante.
Allo stesso tempo, ridimensionare i confini della discendenza idonea alla cittadinanza è assolutamente necessario — e da persona di sinistra mi aspetto che la sinistra sia d’accordo. Offro volentieri alloggio a Elly Schlein, se vuole venire a farsi un giro negli Stati Uniti per osservare con i suoi occhi il tipo di persone bianche e relativamente benestanti benedette dall’idoneità alla cittadinanza italiana, nonostante l’assenza di legami oltre al remoto antenato. Magari le passa la voglia di fare opposizione solo per il gusto di farla, e magari mi evita pure di dover ringraziare le destre, se in futuro dai consolati riceverò attenzioni e appuntamenti in maniera più spedita.
La vera opposizione è quella che fa presente al governo che questo decreto legge è fondamentale ma non basta: è ora di riconoscere la cittadinanza a chi all’Italia ha scelto di appartenere.
Se a te che domenica vuoi mettere la croce sul “no” io raccontassi tutto quello che ho fatto, dato, vissuto, sudato, creduto, sacrificato per gli Stati Uniti, ti garantisco che non ti sogneresti mai di sostenere che una persona come me non può rivendicare il diritto alla cittadinanza statunitense. Perché, allora, ti permetti di sostenerlo per le persone immigrate in Italia, che stanno al nostro Paese come io sto agli Stati Uniti? Perché credi che non possano essere italiane tanto quanto te? Perché pretendi di decidere del loro destino in maniera così crudele?
Il 31 maggio del 2017 è morto mio nonno Fulvio. Non sono potuta rientrare in Italia perché ero in attesa del rilascio del visto lavorativo H-1B, un traguardo estremamente difficile da raggiungere per una persona straniera che lavora negli Stati Uniti.2 Se fossi uscita dal Paese, avrei complicato la procedura di rilascio in una maniera tale che le avvocate e gli avvocati che si occupano di immigrazione sconsigliano fortemente di giocare col fuoco.
Ho seguito il funerale di mio nonno in videochiamata, seduta nel mio letto di Somerville (Boston) alle sei di mattina di sabato 3 giugno. Ricordo ancora la calda luce da alba di inizio estate che entrava dalle finestre, avvolgendomi tra i singhiozzi. Ho salutato mio nonno tramite lo schermo del cellulare. Mi sono commossa vedendo la mia migliore amica in prima fila in chiesa, a fare le mie veci seduta accanto a mia nonna, i miei genitori, mio fratello e mia sorella. Sono scoppiata in lacrime scorgendo volti di parenti, amiche e amici che non vedevo da anni, e che quel giorno c’erano, senza che ci fossi io. In presenza, forse avrei pianto di meno per la morte attesa di un nonno di 93 anni. Ma io lì non c’ero. A distanza, elaborare il lutto è più difficile e richiede più tempo.
Non sono potuta tornare al mio Paese di provenienza perché non appartenevo ancora abbastanza al Paese in cui avevo scelto di stabilirmi.
Non c’è nulla di lacrimevole, nella mia storia di emigrazione, ma c’è una consapevolezza che voglio trasmettere a chi mi legge: questa esperienza di dolore è costante per le persone immigrate che vivono in Italia. Queste persone si sentono così sempre, e spesso è colpa nostra. Se vogliamo vivere in un mondo buono e giusto, dobbiamo lottare perché lo Stato crei le condizioni per cui a nessuna persona sia mai permesso di sentirsi in questo modo.
A chi vive lontano da casa non c’è bisogno che lo spieghi: lo sa, lo sente nelle viscere quanto è forte il dolore. Ma a chi non ha mai fatto questa esperienza, e la mattina di domenica si sveglierà per andare al mare oppure al seggio a mettere la croce sul no, beh io a queste persone chiedo l’umiltà di immedesimarsi in questo dolore, come semplice assaggio simbolico di cosa significa non appartenere al Paese in cui si vive.
Starete male, malissimo. Ma almeno forse capirete.
Almeno conoscerete l’angoscia della non-appartenenza, e forse vi passerà la voglia di infliggerla agli altri.
In questa occasione, ho scoperto ora (ai tempi non avevo neanche 8 anni), fu anche posto un quesito sull’abolizione dell’Ordine del giornalisti, promosso dai Radicali. Il 65% delle persone votanti mise la croce sul sì, ma in assenza di quorum il risultato non fu valido. Tutto ciò mi ha ricordato che è da tanto che vorrei parlare dell’Ordine dei giornalisti su queste pagine, e dovrei finalmente riuscirci una delle prossime settimane.
Serve prima la sponsorizzazione del datore di lavoro, poi c’è una vera e propria lotteria per la selezione randomizzata delle domande che riceveranno l’approvazione.
Ciao Enrica, ti porto di nuovo ad esempio l'esperienza Svizzera. Che è diversa perchè loro sono veterani della democrazia semidiretta e abituati a dire la loro.
Differenze:
- non devono scegliere tra mare e seggi, si vota per posta nei giorni prima o di persona come si preferisce
- i questiti sono espressi in linguaggio umano, non in legalese. Quelli dell'8-9 giugno che ho ricevuto per posta in quanto residente estero erano assolutamente incomprensibili anche per una persona con un dottorato. Sono paragrafi di linguaggio legale con rimandi a leggi, paragrafi, modifiche ecc. che il lettore ovviamente non conosce né può andarsi a consultare in cabina di votazione. Il che vuol dire che deve fidarsi di quello che gli ha detto qualcuno, con intenzioni non sempre buone o che ne sa di più, cercando di convincerlo per il sì o no.
- Insieme ai quesiti si riceve un opuscolo con la spiegazione dettagliata del quesito, le ragioni dei proponenti, la posizione del governo, conseguenze/ ragioni del sì e del no. Certo potrebbe essere manipolato dal governo, ma sembra abbastanza obiettivo e mi sento ben informata senza andare a cercare chissadove.
- se il governo si esprime contro la modifica, a volte formula una controproposta che va incontro alla richiesta ma ha meno impatto o mitiga gli effetti negativi.
- se voglio, il 15 minuti ho letto, capito, votato, comodamente seduta a casa. Devo solo fare ancora due passi fino alla prossima buca delle lettere.
Forse potremmo prendere un po' esempio.
Per la cittadinanza altra questione. La Svizzera è molto protettiva della sua identità e il procedimento richiede in genere almeno 10 anni e tanti requisiti. Inoltre richiede almeno 2 anni di permamanza nel comune di residenza, con comuni che ne chiedono anche 5. Quindi puoi essere da 15 anni nel paese, ma se ti sei trasferito in un altro comune, aspetti. Poi ci sono il test di cultura (con domande sulla società, il governo, cultura, storia e geografia), quello di lingua tedesca, la documentazione con le prove di integrazione (appartenenza ad associazioni, partecipazione a feste, conoscenza dei vicini, ..) e poi il colloquio con le autorità comunali che controllano e decisono se sei persona integrata e gradita in paese. Essendo molto a discrezione, in certi comuni possono semplicemente rifiutarti perchè hai messo fuori l'immondizia il giorno sbagliato, non conosci il nome dei vicini di casa o ti sei lamentato perchè i campanacci delle mucche al pascolo ti tenevano sveglio di notte.
Si tratta quindi di un processo lungo e difficile, in parte arbitrario, che vorrebbe proteggere l'identità svizzera e assicurare l'integrazione, ma finisce anche per allontanare molti immigrati, che non si sentono accettati dal paese e non si sentono un po' svizzeri nemmeno dopo averci vissuto 10 o più anni.
Posto che apprezzo i requisiti di lingua e cultura, il resto mi pare di dubbia efficacia.
8-9 giugno Sì ✅