Non finisce qui
L’esito dei referendum dell’8-9 giugno apre domande più che offrire risposte
La domenica elettorale accompagnavo i miei a votare nell’intervallo tra la messa delle 11 e il pranzo delle 13. Nei primi vaghi ricordi di quei momenti, negli anni 90, il nostro seggio si trovava alle scuole elementari Mattiuzzi Casali, poi ci hanno spostato al liceo Fermi. Nei piazzali antistanti l’entrata delle scuole sostavano folle di persone; all’interno, file di elettrici ed elettori si formavano fuori dalle aule in attesa del proprio turno. L’affluenza era tale per cui nel ricambio tra elettrici ed elettori dentro alle aule si creavano piccoli assembramenti. Nell’interstizio tra la cabina e il pavimento si alternavano senza sosta paia di scarpe sempre diverse.
Alle politiche del 2008 ho preso parte a questo rito per la prima volta, poi per altre sei fino alle europee del 2014. Quindi il trasferimento all’estero, l’iscrizione all’AIRE, la tessera elettorale che rimane a casa a Bologna ad accumulare non timbri ma polvere (ovviamente ho votato per corrispondenza tutte le volte in cui mi è stato permesso: politiche e referendum, non amministrative ed europee).
È stato per prendere di nuovo parte, di persona, al rito collettivo che per i referendum di quest’anno ho deciso di esercitare la cosiddetta “opzione Italia”. Avrei avuto tempo di ricevere e restituire il plico anche prima della partenza dagli Stati Uniti, ma prima ancora che la consultazione fosse indetta sapevo che l’8 giugno mi sarei trovata in Italia. L’idea di tornare a votare di persona dopo undici anni — tra l’altro per esprimere la mia preferenza su un tema a me carissimo, quello della cittadinanza alle persone straniere residenti in Italia — mi emozionava: volevo riscoprire il sapore dell’appartenenza fisica alla democrazia in cui sono nata e cresciuta.
Nel rito a cui ho preso parte, tuttavia, di collettivo c’è stato ben poco. Alle 11 di domenica 8 giugno, la lunga fila di persone non era fuori dal seggio del liceo Fermi, ma all’entrata del nuovo bar pasticceria al suo fianco. Se qui non c’era un tavolino libero dove sedersi, il piazzale antistante al Fermi invece era deserto. A chi è ottimista rimane la fievole speranza che avventrici e avventori del bar si fossero fermati a bere un caffè dopo aver votato.
Sicuramente ha ragione mio padre, che negli anni 70 (quando ai referendum votava la quasi totalità degli aventi diritto) in seggio ha anche lavorato: a un referendum l’affluenza tende sempre a essere inferiore alle politiche, amministrative o europee. Ma io una desolazione del genere al seggio non l’avevo mai vista. E siamo a Bologna, che negli ultimi anni (ben più di quando ero piccola) ha perfezionato la sinonimia con impegno politico e progressismo; Bologna, che a questi referendum ha riportato il tasso di affluenza più alto tra le grandi città (poco meno del 48%, comunque inferiore al quorum; al quesito sulla cittadinanza l’elettorato bolognese ha espresso la percentuale più alta di Sì, circa il 78%).
Mi auguro che al di là delle valutazioni politiche in seno ai vari partiti, al di là delle divisioni tra l’uno e l’altro, all’indomani di questi referendum si possa portare avanti una riflessione profonda sulla disattenzione e la disaffezione di un intero popolo ai riti collettivi che ci permettono di regolare il funzionamento della nostra democrazia. Questa riflessione, a sua volta, può ispirare un progetto di riforme dei meccanismi con cui esprimiamo il nostro diritto di voto: ha senso preservare l’istituto giuridico del referendum abrogativo così com’è, ad esempio, quando in trent’anni ha fallito nove volte su dieci?
Purtroppo, per motivi che spiego a breve, in questa edizione di Anche una donna qui non ho l’occasione di approfondire ulteriormente questi temi. Vi propongo però la lettura di una bella riflessione di
sulla sua newsletter Femminismi, ottimo spunto per una discussione sulla disaffezione del popolo italiano alla politica di cui il dato sull’affluenza è sintomatico. Le parole di Anna mi hanno colpito in pieno: anche io, che tanto predicavo l’ascolto e l’apertura all’elettorato di Trump dopo la sua rielezione a novembre 2024, quando si è trattato del mio Paese (e non solo quello in cui vivo, senza identificarmi come americana) non ho potuto fare a meno di provare ed esprimere una forte delusione verso chi non vota o vota diversamente da me… in una maniera che in realtà sa essere controproducente, e forse puzza un po’ di classismo.Questa tornata referendaria mi ha lasciato anche con tantissime domande aperte su quello stesso senso di appartenenza all’Italia che ha motivato la mia scelta di votare di persona. Quando dico “l’Italia è il mio Paese, gli Stati Uniti quello in cui vivo ma non mi identifico”… come si inserisce questa affermazione nel discorso sulla cittadinanza alle persone straniere, nella mia visione di giustizia su questo tema? Che cosa significa rispetto alla mia idoneità alla cittadinanza statunitense, che raggiungerò quest’anno dopo cinque anni di green card, o residenza permanente, ma dopo dieci da quando mi sono trasferita (i primi cinque anni ho vissuto con visto e residenza temporanea, che non qualifica all’ottenimento della cittadinanza)?
E perché io, che vivo all’estero, ho più diritto di una persona straniera a esprimere la mia voce senza costrizioni? Perché devo comunque sentirmi come se il mio voto contasse un po’ meno di quello di chi continua a vivere in Italia? Cosa pensano della mia idoneità alla cittadinanza statunitense le persone che votano “no” a una maggiore integrazione della popolazione straniera residente in Italia?
Perché l’Italia non riesce ad accettare di essere diventata una società multietnica? Sono solo io e il mio idealismo di sinistra forse un tantino classista — il post della settimana scorsa, con minacciosa citazione dantesca, ha generato 3-4 annullamenti di iscrizione dalla newsletter; non sono tanti, ma non succede spesso — a tenere così veementemente a qualcosa che invece merita maggiore discernimento?
Il punto è che l’accoglienza, l’integrazione e la bontà nei confronti delle persone straniere sono per me valori fondamentali e non negoziabili. Esiste davvero poco — se esiste! — di più importante di questo, anche perché io stessa sono straniera nel Paese in cui vivo. Non per tutti è così, e dobbiamo accettarlo — non passivamente, ma nella maniera attiva che ci permette di considerare la campagna per questo referendum come solo l’inizio.
L’opinione generale sembra ritenere che paragonato all’87-89% di sì ai quesiti sul lavoro, il 65% al quesito sulla cittadinanza sia un fallimento. Io non sono d’accordo. Il tasso di consenso relativamente inferiore, ma non basso in senso assoluto, è semplicemente indice della complessità del quesito: non solo alla lettera sulla scheda elettorale, ma concettualmente, ontologicamente, perché la domanda sulla cittadinanza ha a che fare con la nostra identità.
Ed è proprio da qui che nulla finisce, e tutto riparte.
Sono a Bologna in compagnia di amicə americanə. Non solo non riesco a scrivere più e meglio di così (poco, e per gli standard che impongo a me stessa, piuttosto male), ma è già tanto che abbia trovato una finestra di tempo per farlo. È da dieci giorni che non mi fermo, gestendo tra vari spostamenti in aereo e auto anche la scrittura di alcuni articoli, per cui ho deciso di creare tempo e spazio (pur non avendolo) perché opportunità davvero importanti. Il primo articolo è questo, per Jefferson - Lettere sull’America:
Il secondo, per Linkiesta, racconta storie di ritardi e disagi nell’esercizio del diritto di voto al referendum per alcune persone italiane residenti all’estero: potete leggerlo qui.
È arrivato il momento di prestare un po’ di sana attenzione anche alla necessità di riposo. Salvo imprevisti, Anche una donna qui non uscirà la prossima settimana, e forse neanche quella dopo. Non lo annuncio a cuor leggero, perché l’attualità in questo periodo è ricca di storie da raccontare e commentare insieme, sia in Italia che negli Stati Uniti. Dedicare una puntata così stringata al referendum mi sembra proprio un peccato. Ma al momento di più non posso fare, e in ogni caso questo spazio predilige la lentezza che garantisce profondità di analisi.
Nel frattempo vi invito a lasciare i vostri commenti sull’esito dei referendum, così possiamo ripartire da lì non appena ricarico un po’ di batterie. Grazie!
Io provo molta delusione per questo referendum. Aldilà della disillusione della gente su cui ci sarebbe troppo da dire, c'è stato poco impegno sul far capire perché era importante votare, cosa non cambiava e poi forse il troppo l'accostamento a "se voti sei di sinistra" che ha allontanato le persone.
Io capisco il malessere provocato dai risultati referendari, perché in parte sono stati anche i miei. Credo però che la risposta debba andare oltre la semplice lettura della mancanza di partecipazione da parte della classe politica. La questione è, forse, un po’ più profonda: riguarda la reale assenza di partecipazione alla vita politica (non solo istituzionale) da parte della popolazione.
C’è una carenza culturale nel costruire qualcosa collettivamente. Sempre meno collettivi, sempre meno associazioni, e un attivismo sociale sempre più “reattivo” anziché proattivo. Senza un’idea condivisa di società da costruire, diventa difficile portare avanti cambiamenti o miglioramenti, temo. Sempre che tutto non venga lasciato, come troppo spesso accade, nelle mani di “chi si occupa di politica”.
È qui che si crea il vero scollamento: tra l’istituzionale e il sociale.