C'era una volta il progressismo delle aziende tech
Trump si è insediato alla Casa Bianca e con lui, i broligarchi della Silicon Valley. Poi, la mia esperienza in un comitato DEI di un'azienda tech

All’ora standard delle Montagne Rocciose in cui mi siedo a scrivere questo pezzo, le nove della mattina di lunedì 20 gennaio 2025, mancano sessanta minuti al termine dell’intervallo di quattro anni tra la prima e la seconda presidenza Trump.
Joe Biden aveva promesso di essere un presidente di transizione. Il suo volto familiare di uomo bianco era stato scelto come strumento di affidabile autorità per facilitare il movimento dall’era Trump — che sicuramente, vista l’indiscutibile eccezionalità della democrazia americana, era stata solo una stravagante parentesi della storia! — a una nuova epoca di rinascita, progresso e rinnovamento nell’identità di chi tradizionalmente detiene la poltrona dello Studio Ovale.
Ma la transizione altro non è stata che una ricreazione, una breve pausa per prendere il respiro tra l’ora di matematica e quella di scienze (analogia che vale per chi come me si sentiva più libera, al suo agio e al sicuro studiando altro).
Lunedì 20 gennaio 2025 è stato ricco di significato, politico e personale.
Il giuramento che ha riconsegnato a Donald Trump il titolo di Presidente degli Stati Uniti d’America è avvenuto nel giorno di festa nazionale dedicata a Martin Luther King1. Per la sottoscritta, il 20 gennaio ha segnato due anni dalla mattina in cui mi sono svegliata con la notizia che, per rimanere in tema, ha inaugurato una nuova stagione della mia vita (ed è per questo che mi piace ricordare l’anniversario, non perché sto ancora elaborando il lutto):

Non ne parlo in maniera puramente autoreferenziale, ma perché Google ha a che fare con l’argomento della newsletter di oggi.
Non entrerò nelle specifiche del discorso e dei manierismi di Trump all’inaugurazione; di riassunti e analisi sono già pieni i giornali.2 Dirò solo che un passaggio del discorso che mi ha molto colpito è stato il ringraziamento alle comunità nere e ispaniche per il loro sostegno alle elezioni. Queste comunità, chiaramente, non erano presenti in sala — ho intravisto un volto nero tra il pubblico, ma per il resto, solo volti bianchi — ma come abbiamo analizzato qui, si sono effettivamente spostate verso il Partito Repubblicano, ed è il dato che forse più di tutti spiega la vittoria totale di Trump in un’ottica di identità di classe, più che di razza o genere.
Come da manifesto, cercherò di offrirvi uno sguardo inedito su un tema molto discusso in questi giorni: il nuovo connubio tra gli amministratori delegati delle grandi aziende tecnologiche e il Presidente degli Stati Uniti, che suggella l’inizio di un’era che tanti editoriali hanno già chiamato broligarchia o tecnocrazia.
Avendo lavorato per tanti anni in una di queste grandi aziende, voglio raccontarvi la differenza tra oggi e otto anni fa, quando Trump si insediò per la prima volta, e la mia esperienza all’interno di un comitato di diversità, equità e inclusione (DEI) alla stregua di quelli che stanno riempiendo i titoli dopo l’annuncio che Meta porrà fine a questo tipo di iniziative.
Il primo volto su cui mi è caduto lo sguardo accendendo la televisione è stato quello di Sundar Pichai, amministratore delegato di Google. Non me lo aspettavo, almeno non lì dov’era.
Sundar (come lo si chiama in azienda) sedeva sorridente di fianco a Elon Musk, la cui influenza sul nuovo governo statunitense è stata efficacemente illustrata nell’ultima copertina del New Yorker, dove è Musk, non Trump, a giurare sulla Bibbia che compierà fedelmente i propri doveri di Presidente degli Stati Uniti. Alla destra di Sundar, Jeff Bezos di Amazon, poi Mark Zuckerberg di Meta. Nulla in queste cerimonie è lasciato al caso, ed è quindi ragionevole pensare che l’ordine di distanza degli amministratori delegati dal centro della scena e quindi da Trump — prima Musk, poi Pichai, poi Bezos, poi Zuckerberg — abbia qualcosa a che fare con l’ordine delle priorità nei rapporti della nuova amministrazione con l’industria della tecnologia.
Priorità tra le priorità, s’intende: ai miliardari della tecnologia infatti è stata assegnata la seconda fila di destra sul palco, subito dietro ai figli e alle figlie di Trump, davanti ai membri del suo gabinetto.
La mia mente è tornata a otto anni fa, ai primi giorni successivi all’insediamento originale di Trump alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2017. Nel giro di una settimana Trump firmò l’ordine esecutivo noto come Muslim Ban, che bloccava l’entrata negli Stati Uniti a persone provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana. Era un venerdì. Il lunedì successivo, ad attendere lə dipendenti di Google sul calendario c’era un momento di riflessione con Sundar Pichai e Susan Wojcicki, allora amministratrice delegata di YouTube. Io c’ero.
Non ricordo molto di quell’incontro virtuale con Sundar e Susan, ma era stato pensato per offrire allə dipendenti uno spazio sicuro di comunità e sostegno in risposta allo shock dei primi vagiti della presidenza Trump. Alcune persone condivisero la loro storia di immigrazione negli Stati Uniti, o quella più drammatica dei loro genitori. Molte piangevano. Ricordo i singhiozzi di una mia collega, figlia di immigrati cinesi appartenenti alla classe lavoratrice.
Otto anni dopo aver creato uno spazio di questo tipo in risposta a politiche di razzismo, esclusione e cattiveria, Sundar Pichai è apparso sul palco a pochi metri dalla stessa persona che di quelle politiche fu e ancora è promotore. Ha sorriso, Sundar che è nato e cresciuto in India, quando Trump ha dichiarato che dal primo giorno della sua presidenza metterà l’America prima di tutto. Ha seguito a ruota, quando il pubblico si è alzato in piedi alla promessa di Trump di impedire a razza e genere di infiltrare tutti gli aspetti della vita pubblica statunitense.
Tranquillə, so bene che la bussola dell’amministratore delegato di un’azienda quotata in borsa trova il suo nord nell’avidità e non nella moralità, e questo dovrebbe spiegare tutto ed evitare la sorpresa. Ma la (corretta) lettura capitalista abbandona la superficie e scava in profondità restituendo senso e sensazioni diverse, quando i tuoi occhi per anni hanno visto altro. Anche perché, devo essere onesta, non ho motivo per credere che Sundar non trovasse sinceramente valore nella creazione di certi spazi.
E quindi, secondo me, il punto non è che Trump sta smascherando il vero volto di un CEO come Sundar. Trump sta offrendo a Sundar e simili l’occasione di indossare una maschera del tutto nuova. È diverso, e fa molta paura.
La DEI dal basso
Si parla tanto della decisione di Meta, presa dall’alto di Mark Zuckerberg, di interrompere i propri programmi di diversità, equità e inclusione. Ma l’utilizzo del nome della grande azienda in astratto seguito da verbo al singolare (“Google fa”, “Meta dice”) occulta la complessità di molteplici meccanismi interni.
In particolare, per quanto riguarda i programmi di diversità, equità e inclusione, esistono storie poco o per nulla conosciute di iniziative genuine ed efficaci partite non dall’alto della leadership, spesso viziata dalla logica del profitto (come si vede ora), ma dal basso.
È stata questa la mia esperienza con il comitato DEI del team di Google News, nato dal basso per influenzare l’alto. “DEI Champions”, così ci chiamavamo. Eravamo una dozzina, tutti a titolo volontario a margine del nostro ruolo principale (il benestare dellə nostre manager era necessario per partecipare). Uomini e donne a livelli diversi della carriera, provenienti da ruoli diversi all’interno della divisione News.
A fondare l’iniziativa e guidarci nella sua esecuzione, un’impavida manager così autentica, dedita alla giustizia sociale e pronta a denunciare qualsiasi angheria, e così efficace nel farlo, che a un certo punto la grande e astratta entità aziendale l’ha essenzialmente spinta a rassegnare le dimissioni in seguito alle proteste per la cancellazione di una discussione sul pregiudizio di casta nella comunità indiana (storia che finì sul Washington Post).
Nel concreto, i Campioni DEI di Google News si impegnavano su due livelli:
Formazione e sensibilizzazione del team a questioni di diversità, equità e inclusione. Abbiamo organizzato una serie di incontri mensili con attivistə, consulentə e altre persone impegnate nel campo DEI. Abbiamo ingaggiato una consulente (con cui sono rimasta in contatto) per regolari sessioni di training. Abbiamo ottenuto i fondi per finanziare l’acquisto individuale di libri e altre risorse su questi temi.
Interventi, preventivi e reattivi, per garantire che lo sviluppo di prodotti e servizi avvenisse in allineamento con i valori di diversità, equità e inclusione, aspetto particolarmente importante per un team dedicato alla creazione di prodotti di informazione. Sviluppare un prodotto di notizie in maniera inclusiva, equa e che tenga conto della diversità dell’esperienza umana significa, tra le tante cose, renderlo accessibile a persone con disabilità e persone la cui connessione internet non è stabile, disponibile su scala mondiale nel numero più alto possibile di Paesi e lingue, inclusivo di fonti di informazione grandi e piccole e politicamente diversificate, ecc.
Per la mia esperienza, laddove l’iniziativa DEI parte dal basso, la lettura puramente capitalista di un programma DEI non funziona più, almeno sulla carta: sfidare e sconfiggere la logica capitalista che spiega qualsiasi decisione presa dall’alto è infatti lo scopo, per quanto implicito e sfuggente, del programma DEI che parte dal basso.
Nella pratica, si tratta inevitabilmente di un circolo vizioso, perché per portare avanti dal basso in maniera seria ed efficace un’articolata iniziativa DEI, la benedizione dall’alto è necessaria: per ingaggiare consulenti servono soldi. Per organizzare incontri con lə consulenti serve tempo sul calendario. Per modificare quel codice servono approvazioni.
Un altro problema enorme è il meccanismo degli incentivi. Google valuta la performance dellə dipendenti anche sulla base dell’impegno nella comunità aziendale, e per alcune persone farsi vedere al training DEI “fa bella figura” e nient’altro. Senza contare che la partecipazione più attiva a queste iniziative spesso proviene proprio dalle persone che “già sanno”, perché della mancanza di diversità, equità e inclusione sono le principali vittime. Che impatto su larga scala può avere una consulente che parla di pregiudizi inconsci, se ad ascoltarla sono tante donne e persone nere e persone neurodivergenti e pochi uomini bianchi?
Però io sono convinta che anche nel nostro piccolo, qualcosa nelle coscienze abbiamo smosso. Che quell’ingegnere che non si sarebbe mai sognato di staccarsi dai suoi codici per ascoltare una donna nera che parla di razzismo in azienda — non per malizia, ma perché non ci pensa proprio, a quanto questi temi c’entrino anche con la sua vita — ora un piccolo grillo nell’orecchio ce l’ha. Che quel direttore che in fase di assunzione era naturalmente più attratto da chi somiglia a lui ora spenderà qualche minuto in più a valutare la candidatura di una persona che invece non gli somiglia.
Ed è per questo che ora Trump si è insediato e ci ha dato un assaggio terrificante dei prossimi quattro anni con decine di ordini esecutivi per, tra le altre cose: ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima e dall’Organizzazione mondiale della sanità; cancellare tutte le iniziative DEI del governo federale; riconoscere solo due generi, maschio e femmina, sotto la falsa pretesa di una “difesa dei diritti delle donne”; dichiarare lo stato di emergenza al confine meridionale con il Messico, sospendere certi programmi di asilo e revocare lo ius soli per chi nasce da persone immigrate senza documenti; è per questo che continuo a ripetere, e invito anche voi a ripetere con me:
Dal basso. Dal basso. Dal basso.
Mentre in alto cambia tutto, il basso non va da nessuna parte. E se il suo piccolo lo fa apparire debole di fronte all’enormità di quanto sta accadendo, in realtà è ciò che lo rende speciale e indispensabile, foss’anche solo per sostenerci a vicenda.
Istituita da Ronald Reagan nel 1983. Ricorre ogni anno il terzo lunedì di gennaio, poiché MLK era nato il 15 gennaio, ed è riconosciuta a livello federale: le agenzie governative, le aziende private, i mercati azionari e anche tanti negozi rimangono chiusi per l’occasione e concedono allə dipendenti un giorno di riposo.
Se ne avete la possibilità, vi consiglio di informarvi direttamente su fonti statunitensi (New York Times e Washington Post in testa). La stampa italiana tradizionale ha una visione molto limitata e spesso sensazionalistica degli Stati Uniti.
Nelle pubbliche amministrazioni abbiamo il CUG (Comitato Unico di Garanzia), un organismo indipendente (di cui ovviamente faccio parte) che da un lato sarebbe obbligatorio per legge, dall'altro è molto su base volontaria dal basso. Siamo dipendenti, sindacalisti, un dirigente, e facciamo proprio le cose che ci si aspetta da un comitato DEI. La difficoltà c'è, ma la soddisfazione anche. Non nego che comunque ne ho sentite di ogni dai "dipendenti pubblici maschi in età quasi da pensione", tipo che il nostro obiettivo è indottrinarli verso un pensiero unico o simili... LOL
Davvero interessante la tua prospettiva da ex-interna e volontaria di un comitato DEI! Negli ultimi anni mi sono trovata spesso dall'altro lato, quello della consulente che viene contrattata per fare lezioni o interventi durante programmi DEI aziendali.
Quello che hai scritto mi conferma alcune sensazioni che avevo messo in fila nel tempo: posso confermare che la differenza tra percorsi pensati dal basso e percorsi calati dalla leadership si sente molto, per noi che arriviamo dall'esterno a portare il nostro contributo. Nonostante le criticità che descrivi, anche io sono convinta che queste iniziative possano comunque smuovere qualcosa, anche quando sono vissute passivamente.
D'altronde è quello che anche i femminismi ci hanno abituate a fare: agire con costanza e pazienza, un passo dopo l'altro. Il basso non va da nessuna parte. 💚