Sconfiggere Donald Trump non basta
La retorica dei democratici americani sembra spesso suggerire che sia sufficiente scongiurare il ritorno di Trump alla Casa Bianca per risanare la ferita che ha portato alla sua ascesa
Sconfiggere Trump è un obiettivo elettorale, non un progetto per il paese. Un vero progetto per il paese sarebbe prendere sul serio i milioni di persone che hanno reso possibile il successo di Trump e offrire loro un’alternativa attraente.
Otto anni fa, il 9 settembre 2016, durante un comizio di raccolta fondi Hillary Clinton pronunciò una frase che lei stessa, nei postumi della sconfitta elettorale di due mesi dopo, avrebbe identificato come un fatale errore strategico.
Riferendosi ai sostenitori del rivale Donald Trump, allora come oggi candidato alla presidenza per il Partito Repubblicano, Clinton li chiamò a basket of deplorables — letteralmente, “una cesta di deplorevoli”.
Seguì una pioggia di critiche non solo da parte dei chiamati in causa, indignati e offesi, ma anche dagli stessi democratici, che avvertirono nelle parole di Clinton una rischiosa componente di alienazione di una fetta importante dell’elettorato, sì, ma in senso più esistenziale, del popolo americano.
Il compito della Presidente degli Stati Uniti è unire, non dividere, e per quanto il tuo rivale ti stia facendo uscire pazza e mai ti saresti aspettata che tanti tuoi connazionali si gettassero nelle braccia di uno come lui — e addirittura che uno come lui ci arrivasse, a sfidarti a duello per la Casa Bianca! — è un tuo dovere tendere loro la mano e abbracciarli comunque.
Trump, dal canto suo, intuì immediatamente che i deplorevoli nella cesta erano anche una ghiotta opportunità su un piatto d’argento. Il candidato repubblicano rivendicò l’appellativo per galvanizzare le proprie elettrici e i propri elettori, sfoggiandolo come dimostrazione che l’avversaria altro non era (secondo lui) che la versione oltreoceano di quella che in Italia chiamano la sinistra ZTL: una snob elitaria che deplora metà della cittadinanza convinta di aver capito tutto di ciò di cui ha bisogno, quando in realtà non ha capito nulla.
Era solo settembre 2016. Gli Stati Uniti riposavano ancora innocenti nella beata ignoranza che di lì a due mesi l’impensabile sarebbe davvero accaduto: Donald Trump sarebbe stato davvero eletto presidente. Ancora più drammaticamente, ignari che l’impensabile avrebbe continuato a protrarsi nel tempo, nonostante la sventata rielezione di Trump nel 2020 dopo una notte buia e tempestosa durata quattro anni.
Dopo otto anni, infatti, a settembre 2024, Trump è ancora lì, per la terza elezione presidenziale consecutiva.
A due mesi dal voto, qualsiasi discorso o commento di politici e opinionisti di orientamento democratico è quindi ancora, tanto quanto nel 2020 (ma non nel 2016, quando ancora si riposava nella beata innocenza), una variazione sul tema “la priorità di questa elezione è sconfiggere Donald Trump”.
A volte l’articolazione dell’obiettivo è esplicita, come nelle frenetiche settimane precedenti all’uscita di Joe Biden dalla corsa. Così il comitato editoriale del New York Times nell’esortare Biden ad abbandonare la candidatura:
Per i Democratici il cammino più chiaro verso la sconfitta di un candidato definito dalle sue bugie è l’onesta verso il pubblico americano: ammettere che Biden non può continuare la corsa, e creare una procedura di selezione di una persona che sia più capace al suo posto di sconfiggere Trump a novembre.1
Altre volte l’obiettivo è veicolato metaforicamente come una scelta tra la vita e la morte della nazione e della democrazia. Così Kamala Harris nel discorso di accettazione della candidatura alla convention del Partito Democratico (DNC) a Chicago:
Concittadini americani, questa elezione non è solo la più importante delle nostre vite: è una delle più importanti nella vita della nostra nazione. In tanti modi, Donald Trump è un uomo non serio. Ma le conseguenze di riportarlo alla Casa Bianca sono estremamente serie.
Altre volte ancora il riferimento a Trump è obliquo, tramite sineddoche. Così Michelle Obama nel suo discorso alla DNC, dove “paura”, “divisione” e “piccolezza” sono in fondo sinonimi di “Trump”:
Il nostro destino è nelle nostre mani. Tra 77 giorni, avremo il potere di voltare le spalle alla paura, alla divisione, alla piccolezza del nostro passato.
Tutto vero, certo. Ma finché il Partito Democratico rimarrà attaccato a questa retorica al negativo (la sconfitta di una persona o cosa di contro alla vittoria di un’altra cosa o di un insieme di persone), vincere le elezioni di novembre produrrà unicamente l’effetto di rimandare il problema di altri quattro anni, esattamente come è successo nel 2020.
Vi prego ditemi che non devo essere io — scrittrice italiana residente negli Stati Uniti senza diritto di voto né esperienza politica — a spiegare ai vertici democratici che la morte politica di Trump non equivale alla morte del trumpismo. In Italia lo sappiamo bene: Silvio Berlusconi è letteralmente morto a giugno 2023, ma a giugno 2024 Forza Italia, sul cui simbolo ancora campeggia il nome del Cavaliere, ha invitato elettrici ed elettori a scrivere Berlusconi sulla scheda delle Europee.
Sconfiggere Trump è un obiettivo elettorale, non un progetto per il paese. Un vero progetto per il paese sarebbe prendere sul serio i milioni di persone che hanno reso possibile il successo di Trump e offrire loro un’alternativa attraente.
Lo scrivevo anche qui, e mi perdonerete l’autocitazione: “[Il Partito Democratico] deve sublimare il destruens nel construens, prendendo sul serio il discontento bianco rurale che ha alimentato l’ascesa di Trump, guardando in faccia chi ha abboccato al progetto di rendere l’America di nuovo grande per dire loro: io l’ho capito perché hai scelto e continui a scegliere Trump; non sottovaluto i sentimenti che provi, e ho a cuore il tuo destino. Ecco cosa ti posso dare per aiutarti a raggiungerlo, se decidi di fidarti.”
Pur sostenendo la candidatura di Kamala Harris2, e sperando con tutto il cuore di poter presto vedere una presidente nera alla guida del paese di cui sono residente permanente, purtroppo non riscontro all’interno del Partito Democratico nessuna urgenza di trasformare l’antitrumpismo al negativo in un’opportunità positiva di tendere la mano anche alla parte del paese che continua a scegliere Trump.
Nel 2020, quando Trump era candidato in qualità di presidente in carica, lo slogan poteva ancora avere senso. Ma nel 2024 “sconfiggere Donald Trump” suona sempre di più tale e quale alla cesta di deplorevoli di clintoniana memoria: una formulazione al negativo che non fa che agitare e alienare sempre di più chi del successo politico di Trump è responsabile e, proprio per questo motivo, così galvanizzato, continuerà a esserlo.
Con Kamala Harris il Partito Democratico non deve solo sconfiggere Donald Trump. Se questo tipo di retorica non si evolve, anche con la Presidente Harris per i prossimi quattro anni ci ritroveremo nel 2028 di nuovo da capo.
Tutte le traduzioni dall’inglese sono della sottoscritta.
Ricordo a chi mi legge che il mio sostegno è virtuale, perché non ho (ancora) il diritto di voto negli Stati Uniti. Se vorrò, potrò fare domanda per la cittadinanza a partire dall’anno prossimo.
Concordo molto. Oltre al fatto che - generalizzo ma mi interessa osservare proprio la tendenza - è dai tempi di Obama che i Democratici non guardano più a una grande fetta del Paese. Si sono proprio staccati da un pezzo di America che non rispettano né considerano. Dicono di farlo, ma non lo fanno.
ti ringrazio per la tua risposta. ma quanti sanno in america della campagna di Jill Stein per presidente? percentualmente…Fuori dagli Usa praticamente nessuno: potenza del giornalismo .