Oltre le logiche capitaliste dei social
Una riflessione sulla necessità di creare spazi fuori dai social per l'espressione di una pluralità di voci nel dibattito politico, sociale e culturale
Questa edizione di Anche una donna qui è scritta a quattro mani con Anna Menale, giornalista napoletana autrice della newsletter
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L’estate in cui Enrica ha deciso di fare la scrittrice a tempo pieno, un’amica che ha lavorato per anni in una piccola casa editrice le ha consigliato di prestare particolare attenzione ai social. Quando si presenta un’autrice nuova, ha spiegato l’amica, è prassi della casa editrice controllare se oltre a una solida proposta editoriale, l’autrice sia in grado di portare con sé anche un discreto conto di seguaci sulle piattaforme social. Spesso, questa metrica pesa sulla decisione di pubblicazione tanto quanto la qualità della scrittura.
A volte, addirittura, pesa più della scrittura: per decidere a chi offrire opportunità, le case editrici vanno direttamente sui social. Scovano pagine seguite da decine di migliaia di persone, e alle loro creatrici e creatori commissionano la scrittura di libri. Spesso il contenuto di questi libri non è altro che la trasposizione di quanto già condiviso sulla pagina social: se creatrice o creatore hanno propensione per la scrittura, il lavoro è affidato a loro; altrimenti, entrano in campo editor e ghostwriter.
Il risultato è che gli scaffali delle librerie sono pieni di libri scritti da persone che non hanno mai pensato di scrivere. Chi invece ha sempre voluto farlo, ma non ha la vocazione da social, deve trovare il modo di fare i conti con questa logica, che sia integrandola in qualche modo nel proprio lavoro, oppure fregandosene e accettando le conseguenze.
Anche il mondo del giornalismo si sta sempre di più piegando a questa logica. Ne è un esempio il quotidiano La Repubblica, che di recente ha affidato una rubrica letteraria a Edoardo Prati, uno studente di lettere classiche diventato famoso su TikTok per i suoi video in cui parla di letteratura e attualità.
Possiamo illuderci che chi detiene i mezzi di produzione e diffusione del pensiero agisca unicamente per amore del sapere. Ma nell’essere veicolo di sapere e conoscenza, le case editrici e sempre di più, in un’epoca di difficoltà economica per l’industria dell’informazione, anche le testate giornalistiche sono motivate dalla logica capitalista del profitto tanto quanto l’azienda che vende iPhone. Per sopravvivere nel mercato bisogna vendere. Per vendere servono persone disposte a comprare. E se tra chi consuma cultura e pensiero sicuramente esiste una domanda per scrittura e giornalismo di qualità, offrire talento per le parole in maniera isolata dai numeri è una scommessa poco strategica.
Secondo noi è il torto più grande che si possa fare alla produzione del pensiero e all’informazione libera, critica e accessibile.
Il capitalismo da social
Nel suo libro Realismo capitalista, il filosofo Mark Fisher spiega che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del sistema capitalista. Il “realismo capitalista” di cui parla è la sensazione diffusa che non solo il capitalismo oggi sia l’unico sistema possibile, ma che sia impossibile anche solo immaginare un’alternativa coerente.
Fisher critica anche il tipo di cultura che esiste nel sistema capitalista contemporaneo: una cultura che non mette mai in discussione se stessa, e per questo non si rinnova. Come scrive il poeta e critico letterario T.S. Eliot, infatti, l’esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione “smette di essere contestata e modificata, smette di avere senso”.
Questo ragionamento si applica perfettamente al tipo di cultura promossa sui social.
Sebbene Fisher ne abbia parlato nel 2009, soltanto di recente ci sembra che si stia iniziando a ragionare in modo più serio sui lati negativi del dibattito online, in cui si tende ad affrontare una determinata tematica più per ricevere dei consensi da parte dei propri follower che per un reale interesse verso l’oggetto della discussione.
In questo modo, il dibattito non si rinnova mai, politicamente non si smuove davvero nulla: si propongono soltanto in modo ciclico le stesse dinamiche.
Anna ne ha parlato in un articolo che ha intitolato La violenza sulle donne non è un hashtag, proprio perché le sembra che di violenza sulle donne si parli sempre quando c’è un caso da commentare, un hashtag virale, quasi mai prima e quasi mai nel modo giusto.
Le narrazioni che deresponsabilizzano il femminicida, con argomentazioni quali “la gelosia” e “l’amore malato” o che lo descrivono come “un bravo ragazzo”, sono tra l’altro le più diffuse online e sui giornali.
La tendenza morbosa a cercare i particolari di uno stupro o una violenza sfocia in pura pornografia del dolore. Quando nel 2023 a Palermo una ragazza è stata stuprata da un gruppo di coetanei, su TikTok quello stupro è diventato quasi un trend: molte persone hanno iniziato a cercare il video della violenza, altre hanno pubblicato dei video recitando monologhi strappalacrime fingendo di essere la vittima della storia.
E qui ci torna utile Fisher: “Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine”.
La quantità prima della qualità
Il capitalismo sotteso alla pubblicazione e alla diffusione del pensiero non è una novità introdotta dai social. Sostituisci “social” con “piazza”, “televisione” o “politica” e questa logica è sempre esistita. Non è di per sé perversa, laddove chi detiene i mezzi di produzione del pensiero ricerca talento in luoghi creati appositamente per nutrire il dibattito politico, culturale e sociale: le classifiche di libri pubblicati in autonomia su Amazon, dove non si trova solo la spazzatura che pensiamo, ma anche tantissima qualità1, oppure qui su Substack, o Medium, o nella cosiddetta blogosfera.
È logico, pensando al funzionamento del sistema in cui viviamo, che chi determina e/o influenza la distribuzione di pensiero e conoscenza guardi a questi luoghi digitali: la forma che prendono e gli strumenti che offrono hanno direttamente a che fare con lo sviluppo del dibattito pubblico.
I social hanno creato uno spazio virtualmente infinito per l’espressione del pensiero — ma raramente la forma e gli strumenti che offrono per farlo sono pertinenti alla vocazione, al talento e alla formazione di chi questo pensiero lo produce.
La struttura delle piattaforme social favorisce contenuti brevi e immediatamente fruibili dal pubblico, a discapito di argomentazioni più lunghe e articolate. Curare in maniera efficace uno spazio sui social media richiede inclinazioni e capacità particolari che non solo hanno a che fare con la personalità di un individuo, ma anche, e soprattutto, richiedono tempo — tempo che viene tolto alla produzione e all’espressione del pensiero.
, giornalista che conduce Revolution - il mondo cambia ogni giorno su Rai Radio 3 e cura la newsletter qui su Substack (grassetto nostro):Ormai molti editori chiedono libri a chi ha una comunità di lettrici e lettori alle spalle che è mobilitabile e garantisce un po’ di acquisti. A prescindere dagli eventuali contenuti del libro. Per questo le librerie si riempiono di volumi di influencer, opinionisti televisivi, attiviste social, podcaster... prima viene la comunità, dopo viene il libro. Difficile muoversi in questo settore, perché costruire una comunità sui social richiede un enorme dispendio di energie: e se dedichi tutto il tuo tempo a rispondere a messaggi o fare dirette, quando ti dedicherai a lavorare davvero sul libro?
Senza contare che non c’è nessuna correlazione tra il tempo passato a curare una pagina social e la scala di diffusione dei suoi contenuti, che è alla completa mercé di insondabili logiche algoritmiche. In altre parole: si possono dedicare enormi quantità di tempo ed energie a sviluppare strategia e contenuti di qualità senza ritorno alcuno in termini di visibilità.
È così che, nell’illusione di poter rendere informazione e conoscenza più accessibili, le piattaforme social hanno in realtà contribuito a un profondo svilimento del dibattito pubblico e politico.
Quello di Edoardo Prati è solo un esempio — tra l’altro molto recente, perché la sua rubrica è iniziata proprio questa settimana — che abbiamo scelto per illustrare una situazione che riteniamo ingiusta.
Lui non ha colpe: a vent’anni, se ami la letteratura e ti offrono una rubrica su un quotidiano a tiratura nazionale, senza alcuna ipocrisia sappiamo che quasi nessuno rifiuterebbe.
La colpa è del sistema che alimenta queste dinamiche e che esclude da certe posizioni chi non ha notorietà o privilegi economici.
Angela Russo, giornalista che si occupa di politica e attualità, a tal proposito ci ha raccontato:
Vedo persone senza nessun interesse nei confronti del giornalismo e soprattutto senza nessuna qualifica prendere il posto di chi, invece, ha davvero qualcosa da dire. Il degrado della qualità dell’informazione ha portato anche a questo, la quantità vale più della qualità e, se hai già un nome sui social, sei privilegiato. Agli occhi dei selezionatori risulti essere una possibilità non per apportare nuovi contenuti di valore e un nuovo punto di vista, ma diventi un mezzo per arrivare a più persone possibili, indipendentemente da cosa scrivi o tratti.
Ormai [il giornalismo] è una professione che ha cambiato i suoi connotati, il giornalista sta diventando una sorta di influencer dell’informazione, e se non percorri quella strada cadi nel baratro della disoccupazione.
Il problema si presenta nel momento in cui si scambia la popolarità per autorevolezza. Chi ha tanti follower è automaticamente considerato un punto di riferimento nel dibattito pubblico, a prescindere dalle sue competenze.
Affidare rubriche sui giornali o commissionare libri a persone in virtù della loro popolarità sui social, a prescindere dal livello di competenze, è problematico per una ragione semplice: mentre qualcuno svolge anni di gavetta e di studio per arrivare a occuparsi di certe tematiche e magari a trent’anni si sente dire “sei troppo inesperto/a per parlare dell’argomento” (spoiler: se lo sentono dire soprattutto le donne), qualcun altro arriva a ricoprire dei ruoli importanti, pur non avendo le giuste competenze, perché popolare online.
Dobbiamo riconoscere che neanche parte del movimento femminista è esente da queste dinamiche. Sui social l’attivismo per i diritti delle donne diventa in molti casi un mezzo per promuovere la propria immagine di intellettuale che scrive libri. Poche voci riescono a dire tanto, mentre tante voci possono dire poco o e si sentono inascoltate, essendo prive di cassa di risonanza mediatica.
Questo squilibrio rischia di trasformare la lotta politica in un discorso elitario, in cui il femminismo diventa più visibilità individuale che scambio collettivo di idee.
Per la creazione di spazi fuori dai social
Si moltiplicano in questi tempi gli annunci e le riflessioni di quotidiani, attiviste e scrittrici che hanno deciso di passare meno tempo sui social, o addirittura di abbandonarli tout court.
ha deciso di voler ridurre il tempo dedicato a Instagram perché “non [le] piace ciò che è diventato e le dinamiche che lo animano”., proprio in questi giorni, ha lanciato la newsletter Substack per parlare del suo “percorso di liberazione dalle piattaforme private”.Con una riflessione sulla necessità di “ricostruire le nostre case digitali”, Valigia Blu ha annunciato che abbandonerà le piattaforme Meta citando, tra le altre cose, i compromessi di Mark Zuckerberg con “il regime e l’ideologia trumpiana”.
A poter più facilmente allontanarsi dai social sono di solito persone e realtà che possiedono già spazi affermati al di fuori, la cui voce può essere ascoltata anche senza i social. E chi invece di uno spazio così è ancora alla ricerca? Può una voce emergente nel dibattito politico e culturale permettersi di non scendere a compromessi con le attuali logiche di dipendenza della produzione di pensiero dai social?
In ogni caso, visto il momento storico in cui i social vengono utilizzati per diffondere messaggi conservatori o per fare endorsement a politici di destra, slegarsi dai social è davvero la soluzione? Se sì, come possiamo creare un contraccolpo, proponendo un altro tipo di dibattito, critico e al contempo progressista? E in che spazio lo proporremmo?
Sono domande che ci poniamo senza aver ancora trovato risposte.
Siccome crediamo nella possibilità di un cambiamento nel sistema in cui viviamo, vogliamo pensare che sia possibile. È necessario che chi produce cultura e pensiero si dedichi alla creazione di nuovi spazi digitali fuori dai social; che chi detiene la proprietà dei mezzi di diffusione del pensiero renda possibile anche a voci nuove di emergere, anche se non hanno centomila follower su Instagram; e soprattutto, che chi si informa utilizzi canali alternativi. Le scelte di chi consuma informazione e pensiero culturale pesano tantissimo sulla dinamica capitalista in atto.
Come scrive Fisher: “L’unica maniera per mettere in discussione il realismo capitalista è mostrare quanto sia inconsistente e indifendibile: insomma, ribadire che di ‘realista’ il capitalismo non ha nulla”.
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Questo pezzo apre tantissime questioni di cui sarebbe bello parlare insieme, magari a voce, ma comunque unite (e di sicuro non su una diretta social 😅).
Condivido la frustrazione di fronte ai meccanismi dell'industria culturale. Proprio l'altro giorno ho sentito parlare una persona che lavora come ghostwriter e sono rimasta sbalordita nel sapere che certi romanzi scritti da influencer non sono farina del loro sacco. Lo so, forse sono molto ingenua, ma pensavo che il fenomeno si limitasse alle biografie, non anche ai lavori di creatività narrativa. 🙈
Detto questo, non ho al momento risposte su alternative agli spazi social che riescano anche a essere accessibili allo stesso modo - perché anche di questo bisogna parlare: l'importanza delle piattaforme nel mettere a disposizione spazi di conversazione accessibili, usabili anche da chi magari ha difficoltà a spostarsi in spazi collettivi fuori dagli schermi.
Il picco di consapevolezza e voci che si sta (ri)alzando in questo periodo mi accende una piccola fiammella di speranza, prima o poi ci sarà modo di far scoppiare questa bolla? Ci voglio credere.
Mi piace molto questa nuova piattaforma: dà più spazio e respiro per riflettere. L’articolo tocca molti punti interessanti e stimola una riflessione più ampia sui cambiamenti della società. In particolare, parlando di editoria (da fruitore), mi sono chiesta se i canali social delle case editrici siano gestiti da esperti in grado di valorizzare voci emergenti.
E se lo sono, cosa non funziona?
So che è difficile generalizzare, ma mi piacerebbe approfondire. Probabilmente una via di mezzo sarebbe una buona alternativa.
La decadenza, in un certo senso, riguarda un po’ tutti, persino gli intellettuali, che secondo me dovrebbero essere i primi a immaginare il futuro. Eppure, faticano a mettere in discussione le proprie idee e ad aprirsi al dibattito. Senza contare che, in alcuni contesti, il dibattito con i neoliberista (o fascisti) è complesso perchè tendono a giocare sporco, ignorando le regole del confronto.
Forse le mie idee appaiono un po’ confuse, ma credo che, nel nostro piccolo, dovremmo tutti assumerci la responsabilità delle nostre scelte, sia quando leggiamo un libro sia quando seguiamo giornalisti o altri contenuti sui vari canali. :)
Fa ridere che proprio ieri sera mi sono imbattuta nella quote “il capitalista ti venderebbe la corda con cui lo impiccherai” e il tuo incipit me l’ha fatta venire in mente.
Ciao ciao e buona giornata
Elisa
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Spero che questa versione sia più piacevole da leggere! Fammi sapere se vuoi altri aggiustamenti. 😊