Ho messo in pausa la parola privilegio
Usata e abusata, "privilegio" rischia di perdere potenza di significato.

Nel numero scorso di Anche una donna qui, visti i temi trattati, avrei potuto usare la parola “privilegio” un paio di volte ogni paragrafo. Invece, in un testo di diecimila battute che parla dei vantaggi arbitrari alla base di tante disuguaglianze, mi sono limitata a due sole occorrenze dell’aggettivo “privilegiato” per qualificare non una persona, ma un contesto. La parola “privilegio” compare una sola volta, in una piccola nota a piè di pagina che, secondo statistiche, ha cliccato lo 0,4% di chi ha letto il pezzo (una persona1).
Non è stata una scelta lessicale strategica o politica o alcunché di particolarmente consapevole. Semplicemente, osservo un tale abuso della parola “privilegio” nel discorso socio-politico-culturale odierno, che quando tocca a me scrivere di fenomeni ascrivibili al concetto di privilegio faccio fatica a “sentire” la parola con la potenza semantica di una volta. Nel dibattito online, in particolare, il privilegio è usato per etichettare (rifiutarsi di prendere sul serio?) così tanti fenomeni, comportamenti e opinioni che se tutto può essere una forma di privilegio, allora nulla è più privilegio.
Nel tentativo di rendere meno vago il concetto di privilegio e creare consapevolezza sulle maniere in cui si manifesta — così che chi gode di privilegi alla radice di profonde disuguaglianze possa finalmente accorgersene — si è raggiunto l’estremo opposto: la moltiplicazione ad libitum di accezioni che invece di rafforzarlo, diluiscono il significato di privilegio e ne indeboliscono l’utilità argomentativa.
Bisogna restituire al concetto di privilegio la puntualità e l’efficacia che si merita, perché possa davvero essere uno strumento utile per analizzare le disuguaglianze politiche, economiche e sociali. Nella foga di far notare che un certo comportamento è segno di privilegio, stiamo perdendo di vista che cos’è davvero il privilegio, e quali forme di privilegio sono davvero causa di oppressione.
In particolare, osservo due utilizzi retorici di “privilegio” che a mio avviso rendono il concetto improduttivo e controproducente:
Il “privilegio” come descrizione di differenze tra due o più persone basate su vantaggi marginali che non creano nessuna dinamica di oppressione tra chi detiene il cosiddetto privilegio e chi invece ne sarebbe privə;
Il “privilegio” come espediente retorico per invalidare le opinioni altrui e rifiutare opportunità di sano (sano!) confronto.
Per oggi mi concentro sul primo utilizzo, così anche da non dilungarmi troppo. In un’edizione futura mi dedicherò al secondo.
Mi basta aprire Instagram con il profilo di Anche una donna qui, con cui seguo solo e unicamente pagine che trattano argomenti affini a questa newsletter, per incontrare denunce di forme sempre nuove di privilegio (gli esempi che seguono sono tutti veri):
Manifestare è un privilegio (perché in certi Paesi del mondo non si può protestare liberamente, o magari perché alcune persone sono state arrestate per aver manifestato, e in detenzione non possono più farlo).
Emigrare dal proprio paese è un privilegio anche quando a costringerti a emigrare è la guerra o la fame o la dittatura o il clima (perché alla fine c’è sempre chi a emigrare da queste condizioni non ci riesce).
Andare in vacanza è un privilegio (questa è controversa, lo so: ci arriviamo).
Se è vero che le azioni e i comportamenti qui qualificati come “privilegiati” sono in qualche modo espressioni di “vantaggio”, il problema di queste proposizioni è che l’impeto argomentativo è tutto concentrato sulla persona che beneficia di un vantaggio, invece del contesto materiale, politico, economico, culturale, sociale che fa sì che alcune persone godano di certi vantaggi rispetto ad altre. Ma tra le persone cosiddette “privilegiate” e quelle che non lo sono, nelle situazioni di cui sopra, non sussiste alcun rapporto di oppressione. Sussistono differenze spesso marginali, che in certi casi si fa molta fatica a definire “privilegi”.
Qual è l’utilità argomentativa e pratica di rimarcare che chi riesce a emigrare dalla povertà del proprio Paese ha un vantaggio rispetto a chi non ce l’ha fatta — magari creando un ingiustificato senso di colpa in chi ha la fortuna di riuscire a superare il confine — quando il vero privilegio è nelle mani della sovrastruttura che non distribuisce risorse in maniera giusta ed equanime?
Scrive la giornalista femminista
in un numero della sua newsletter in cui esamina le criticità del concetto di “privilegio di classe” (grassetto mio):Il concetto di “privilegio” […] riguarda più la sovrastruttura che la struttura. […] Ci impedisce di costruire una coscienza di classe, perché nel momento in cui lo usiamo come strumento di analisi, quello che spicca sono le cose ci rendono diversi anziché quelle che ci accomunano. Ma soprattutto ci appoggiamo a una condizione che non abbiamo il potere di cambiare e, implicitamente, ci rassegniamo all’idea che il mondo va così perché è fatto così, e non c’è modo di cambiare le cose.
Così invece il giornalista socialista
, che tra la sua newsletter e Instagram ricorda spesso come il significato originario di “privilegio”, la cui etimologia latina deriva da privus (primo) e lex (legge), sia “disposizione che riguarda una persona singola” e non sia da confondere con “diritto”:Il privilegio è ciò che dovrebbe essere eliminato in quanto dannoso, preso dall’alto di una condizione di (appunto) privilegio e riportato a livello degli altri.
Il diritto è ciò che invece dovrebbe appartenere a tutti e che se dovesse essere negato a qualcuno configurerebbe una vera e propria ingiustizia.
Confondere i due termini attiva un cortocircuito cognitivo che rischia di colpevolizzare chi vive in una condizione di semplice e manifesta giustizia.
Tornando all’esempio del “privilegio di andare in vacanza”: controverso, dicevo, perché la possibilità di andare in vacanza deriva direttamente da condizioni economiche che per alcunə sono vantaggiose, per altrə no. Siamo in presenza di una disuguaglianza. La responsabilità di questa disuguaglianza, però, non è di chi può andare in vacanza, ma del sistema che non retribuisce certe persone abbastanza perché possano disporre di tempo per il riposo, o che ti costringe a cedere tre quarti dello stipendio per l’affitto rendendo impossibile il risparmio, e via dicendo.
La retorica del privilegio diventa improduttiva quando non si accorge di questa differenza sostanziale, e si fa sopraffare dalla preoccupazione di denunciare chi avrebbe più privilegio di chi altro in assenza però di un rapporto oppressivo — dimenticandosi delle condizioni che creano privilegio in prima istanza.
Anche perché cosa dovrebbe fare una persona che ha la possibilità di andare in vacanza, che Sahebi ritiene giustamente essere un diritto, non “un vantaggio dannoso che dovrebbe essere eliminato”? Può starsene a casa — ma cosa cambia per chi invece in vacanza non ci può andare? Esattamente niente. Perché, appunto, non è chi va in vacanza che facendolo opprime chi non può farlo. È la sovrastruttura che crea queste disuguaglianze a essere causa di oppressione.
Se ribaltiamo la prospettiva: chi per anni non ha potuto andare in vacanza e finalmente un’estate riesce a farsi una settimana, che so, a Ibiza, e se la fa… questa persona diventa magicamente privilegiata? Per quale motivo, se questa persona posta sui social media le foto della sua tanto agognata vacanza a Ibiza, dobbiamo sostenere con forza che sta “performando privilegio”? Qual è l’utilità di questa caccia al privilegio, se non indebolire il significato di un concetto che può a tutti gli effetti essere uno strumento efficace di lettura della realtà sulla base di certe disuguaglianze — a patto che lo maneggiamo con cura?
Finché continuiamo ad alimentare questo tipo di retorica improduttiva e fuorviante sul privilegio, sarà difficile per me riportare in voga questa parola dalla pausa in cui l’ho temporaneamente messa (più inconsciamente che altro). Voglio stare attenta a riservare “privilegio” per i contesti in cui davvero ha senso evocare il concetto.
Sono anche convinta che spesso “privilegio” sia utilizzato come anatema per allontanare da noi (proteggerci da?) individui o collettività che sembrano marciare in una direzione diversa dalla nostra riguardo a un problema sociale, economico, politico — ma questa è un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta.
Le analisi che propongo su questa newsletter sono gratuite; per scriverle, però, ci metto tanto tempo: tempo che ha valore. Se ha la voglia e la possibilità economica (non mi pare il caso di scomodare il privilegio 😊) di sostenere il mio lavoro con un contributo una tantum, ti lascio il link alla mia pagina su Ko-Fi! Grazie di 🩵!
🎙️ Udite udite!
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Peccato. Le note a piè di pagina nascondono tanti tesori.
Articolo molto interessante. Condivido tantissimo il pensiero!