Appunti sparsi sul dilemma Kamala Harris
Ammesso che se la VP e presunta nuova candidata democratica non fosse una donna nera, probabilmente non ne parleremmo come di un dilemma
Forse il Partito Democratico deve proprio cavalcare l’onda dell’unprecedented per compiere lo sforzo d’immaginazione necessario per portare avanti a testa alta l’ipotesi Kamala Harris Presidente
Non c’è niente che l’America non possa fare — quando lo facciamo insieme. Dobbiamo solo ricordarci che siamo gli Stati Uniti d’America.1
Con questa esortazione Joe Biden conclude la lettera con cui annuncia il ritiro dalla corsa alla Casa Bianca. “Siamo gli Stati Uniti d’America”, punto: è la cifra di questo paese, la convinzione e la fede che basti pronunciare il proprio altisonante nome perché siano impliciti una serie di aggettivi e un certo risultato.
“Siamo gli Stati Uniti d’America” significa siamo buoni, siamo probi, siamo retti, siamo guidati da una forza superiore verso un destino di giustizia e compimento. Il risultato è che “facciamo la cosa giusta” — we do the right thing, la tagline della democrazia a stelle e strisce. Non serve dire altro, dopo “siamo gli Stati Uniti d’America”, la lettera può concludersi così. Chi legge, sa. Ha capito.
Io sono molto critica nei confronti di quella disposizione dell’animo statunitense che chiamiamo “eccezionalismo americano”. Ne ho parlato (in inglese) qui; il concetto di “nazione migliore del mondo” è non solo arrogante, ma una contraddizione in termini dell’idea di superiorità morale che rivendica. Per essere moralmente superiori bisogna esercitare umiltà, saper mettersi in discussione, riconoscere i propri errori come opportunità di crescita invece di configurarli come altro da sé (“this is not America” è un ritornello comune nel commentare tutto ciò di brutto che in questo paese accade). L’eccezionalismo americano è l’opposto: è superbia, presunzione, tracotanza.
Se gli Stati Uniti fossero davvero così eccezionali come la retorica della classe politica americana sostiene, allora nel contesto dell’elezione presidenziale di quest’anno “dobbiamo ricordarci che siamo gli Stati Uniti d’America” in chiusura dell’annuncio di Joe Biden implicherebbe una sola cosa giusta da fare: il Partito Democratico nominerà Kamala Harris, attuale vicepresidente, perché il partito e e il paese sono pronti per l’ipotesi che a guidarlo sia una donna nera.
Ma gli Stati Uniti non sono eccezionali: sono tanto imperfetti e tanto mediocri come qualsiasi altro paese del mondo, Italia compresa. E quindi il mio occhio straniero legge “siamo gli Stati Uniti d’America” da una prospettiva molto diversa dall’eccezionalismo. Gli Stati Uniti d’America, oggi, sono un paese diviso, in cui forme di discriminazione quali razzismo e sessismo pervadono indisturbate; non sono mai stati in grado di eleggere una donna alla Casa Bianca, tant’è che quando si è presentata l’occasione hanno preferito un uomo che incarna l’antitesi della giustizia sociale; il ritiro di Biden è un passo in avanti per il campo democratico, ma a malapena si può considerare un evento risolutorio della crisi.
Da qui a novembre, passando per la nomina dellə nuovə candidatə a fine agosto, il Partito Democratico deve offrire un’alternativa allettante e irresistibile che vada oltre l’antitrumpismo. Deve sublimare il destruens nel construens, prendendo sul serio il discontento bianco rurale che ha alimentato l’ascesa di Trump, guardando in faccia chi ha abboccato al progetto di rendere l’America di nuovo grande per dire loro: io l’ho capito perché hai scelto e continui a scegliere Trump; non sottovaluto i sentimenti che provi, e ho a cuore il tuo destino. Ecco cosa ti posso dare per aiutarti a raggiungerlo, se decidi di fidarti.
Per attuare un’alternativa del genere sono necessari ben più dei cento giorni che ci separano dall’elezione del 5 novembre. Soprattutto, è necessaria unità immediata nel post-Biden, che invece è cominciato all’insegna dei dubbi sulla nomina di Kamala Harris. Ma anche se l’alternativa allettante di cui sopra continua a eludere il campo democratico, non è troppo tardi per unirsi nel nome di Kamala Harris.
Riprendo il formato del post precedente per formulare alcune considerazioni riguardo a Harris, ora che mi avete confermato all’unanimità, nel sondaggio allegato a quel post, che vi interessa leggere anche questo tipo di riflessioni. Ne sono felice, grazie!
La soluzione perfetta non esiste
Il ritiro di Biden dalla corsa è la scelta migliore che il campo democratico ha potuto compiere date le informazioni che possiede in questo momento. Ma il rapporto causa-effetto tra questa decisione e l’esito delle elezioni non sarà mai chiaro: a novembre potrebbe vincere Donald Trump qualsiasi candidata/o il Partito Democratico decida di presentare.
Se il 5 novembre vincesse la/il candidata/o democratica/o, sarà impossibile affermare con certezza che la democrazia ha trionfato perché Biden si è ritirato il 21 luglio. Viceversa, se il 5 novembre vincesse Trump, non avrebbe senso supporre che se Biden il 21 luglio non si fosse ritirato, allora… Un’elezione democratica non è un esperimento scientifico dove all’ipotesi A (Trump vs Harris, per esempio) possiamo affiancare l’ipotesi B (Trump vs Biden) a guisa di gruppo di controllo per isolare i fattori confondenti.
La nomina vincente non potrà mai essere ricostruita retroattivamente sulla base del risultato di novembre, e questo significa semplicemente che la nomina perfetta non esiste. La nuova candidatura andrà individuata con la stessa logica con cui Biden ha compiuto la scelta del 21 luglio: la scelta migliore che il campo democratico può compiere date le informazioni che possiede in questo momento.
Poiché la nomina perfetta non esiste, qualsiasi scelta comporterà un sacrificio: l’obiettivo è ridurre al minimo il numero di sacrifici richiesti. Nel caso di Kamala Harris, l’argomentazione “non è popolare” non è sufficiente né prudente nell’analisi della nomina, perché non tiene conto del fatto che liquidare Harris irriterebbe non poco l’elettorato nero e anche quello femminile, entrambi cruciali per il Partito Democratico. È probabile che pur di sventare il pericolo Trump questo elettorato voterebbe per qualsiasi candidato democratico, ma accantonare l’ipotesi Harris sarebbe un affronto non da poco (se io fossi americana e avessi il diritto di voto, sarei davvero delusa).
Il che mi porta al punto successivo…
È impossibile separare razzismo e sessismo dal dibattito su Kamala Harris…
Lo ripeterò fino allo sfinimento, perché è questo il significato di intersezionalità: Harris è una donna nera che si muove in un mondo dove le donne nere sono vittima di oppressione sistematica.
Trump lo sa benissimo, tant’è che ha già detto che battere Harris sarà più facile di battere Biden, e no, non lo dice solo perché Harris come vicepresidente è andata malino nei sondaggi.
Si stanno dando tutte le spiegazioni possibili dell’impopolarità di Harris come vicepresidente: non si fa abbastanza vedere, non ha concluso niente, ecc. senza chiedersi perché tutto ciò succede alla prima vicepresidente nera degli Stati Uniti.
È così che funzionano i pregiudizi inconsci: agiscono senza che ce ne accorgiamo. Interpretare i sondaggi su Harris e valutarne l’eleggibilità basandosi tout court sul suo operato, ignorando completamente l’inevitabile componente razzista e sessista in gioco, è una lettura molto miope.
Questo non vuol dire che Harris è poco popolare perché e solo perché è una donna nera. Vuol dire che il suo essere una donna nera influisce sulla maniera in cui viene valutata, alza l’asticella e la sottopone a metri di giudizio molto più stretti di quelli con cui si osserva il classico uomo bianco.
Come dicevo nel post precedente, perché l’impopolarità e la unlikeability (incapacità di piacere) sembrano essere vizi che affliggono solo le donne che pericolosamente si avvicinano alla rottura del soffitto di cristallo, prima tra tutte Hillary Clinton? Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan, è molto popolare tra il suo elettorato, il che la rende un’ipotesi appetibile per il ticket democratico perché il Michigan è un cosiddetto swing state — uno di quelli che “oscillano” (swing) a fasi alterne tra il Partito Democratico e quello Repubblicano, che perciò hanno il potere di fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta di un/a candidatə alla presidenza. Bene, non mi sorprenderebbe se la popolarità di Whitmer diminuisse nell’eventualità di una candidatura alla Casa Bianca.
Su Harris si dice addirittura che è poco “presidenziale”, un aggettivo semanticamente marcato se si pensa che l’immagine di una persona “presidenziale” finora è stata quella di un uomo perlopiù bianco. È ovvio che secondo la definizione tradizionale Harris non è “presidenziale” — ma è anche ovvio che può esserlo, che è assolutamente capace di caricare la definizione di presidenziale di un nuovo significato. All’elettorato spetta il compito di poterlo immaginare.
…ma dobbiamo avere il coraggio di non farne un ostacolo
Harris è una candidata rischiosa perché è una donna nera. Non è né razzista né sessista dirlo: è la realtà dei fatti, informata dal traumatico, straziante precedente del 2016. Gli Stati Uniti non sono riusciti a eleggere neanche una donna bianca: è questo il momento di sfidare la sorte con una scommessa sull’insondabile unprecedented, che in quanto senza precedenti non è mai successo, può succedere solo una volta, e forse la volta che deve succedere dobbiamo arrivarci con più preparazione?
Ma la campagna elettorale del 2024 è già, nel suo complesso, unprecedented. Ha sconvolto tutte le tacite regole, le leggi invisibili, le previsioni statistiche. Le sette settimane tra il 30 maggio e il 21 luglio sono state un susseguirsi di unprecedented and shocking, dalla prima condanna criminale di un ex presidente, al ritiro della candidatura di un presidente in carica a poco più di cento giorni dalle elezioni, passando per un tentativo di assassinio.
La legge dei grandi numeri vorrebbe che non succedesse più niente di sconvolgente, ma non è così, anzi, e forse il Partito Democratico deve proprio cavalcare l’onda dell’unprecedented per compiere lo sforzo d’immaginazione necessario per portare avanti a testa alta l’ipotesi Kamala Harris Presidente.
È qui che può davvero realizzarsi l’idealismo implicito in “siamo gli Stati Uniti d’America”: il rischio non deve fermarli. Gli Stati Uniti possono eleggere una donna nera, e questo può essere il momento.
Una delle argomentazioni contro la “incoronazione” di Harris in assenza di un’esplicito assenso dell’elettorato (tramite un secondo giro di primarie, ad esempio) è, appunto, la democrazia. Ma la storia recente degli Stati Uniti è piena di precedenti in cui il (parlo al maschile perché il femminile non è mai stato fatto storico) vicepresidente ha preso il comando: Lyndon Johnson ha sostituito John Fitzgerald Kennedy dopo l’assassinio, Gerald Ford è diventato presidente dopo le dimissioni di Richard Nixon… è il compito del vicepresidente, e l’elettorato lo sa. L’elettorato sceglie un presidente accettando che il/la vicepresidente potrà sostituirlo ove necessario.
In questo senso, non è meno democratico nominare Harris senza che l’elettorato l’abbia scelta direttamente, perché il voto per Biden non è mai stato separato dal voto per Kamala Harris.
Se Harris è la candidata, sarà una campagna brutale
Da qui a fine agosto (quando il Partito Democratico confermerà la/il propria/o candidata/o alla convention di Chicago), e poi da fine agosto a inizio novembre (se Harris fosse la candidata) prepariamoci a:
Razzismo e sessismo, anche molto sottile, della campagna di Trump e relativo apparato. Non si è risparmiato nel 2016 e non si risparmierà nel 2024.
La completa incapacità della stampa italiana di parlare della candidatura di una donna nera alla Casa Bianca senza cadere in paternalismo (se ne vede già tanto), cliché sessisti e razzisti e quell’abitudine che abbiamo di chiamare le donne in politica per nome come se fossero le nostre compagne di banco (questo articolo di Repubblica, prima che intervenissero, era tutto un Kamala e niente Harris).
L’irritazione, la paura, il dolore saranno inevitabili. Ma non devono dissuaderci. Il momento di combattere per la prima donna nera alla Casa Bianca è ora.
Traduzione dall’inglese della sottoscritta
Ciao! Provengo dagli Appunti di Stefano Feltri.
Mi e' piaciuto l'articolo, grazie per averlo condiviso! Interessante l'accenno su come i giornali italiani parlano della nuova candidata Dem. Dice molto della mentalita' italiana, credo.
Spero che vinca Harris e che sia un'ottima presidente, altrimenti sarà durissima per le prossime candidate a venire