Lo spazio per tutto
La morte della mia carissima nonna Enrichetta alla fine del mio viaggio mi porta a riflettere sul collegamento tra gli insegnamenti della sua vita di donna e i temi su cui vado scrivendo
In questo scritto ricordo aspetti della vita di mia nonna che si ricollegano ai temi della newsletter. È successo tanto altro nel quasi secolo di vita di mia nonna, ma non è questo il luogo per raccontarlo, almeno per ora.
Mia nonna materna, al secolo Enrica — mi hanno chiamata per lei — ma conosciuta come Enrichetta perché la più piccola di tre sorelle, nata a Bologna nell’aprile del 1927 così che i diciott’anni nel 1945 li avrebbe festeggiati in mezzo ai carri armati alleati che liberavano la nostra città, a votare ci andava sempre. All’epoca in cui era nata le donne in Italia non avevano il diritto di voto, mi spiegava come se non lo sapessi, quindi per lei votare a ogni elezione era, oltre che importante, una questione di coscienza femminile.1
Mia nonna dopo le magistrali avrebbe voluto fare l’università. Aveva scritto alla Ca’ Foscari di Venezia perché le sarebbe piaciuto iscriversi lì per studiare le lingue. Ma sua mamma, la mia bisnonna Maria, non glielo ha permesso. All’università c’erano gli sporcaccioni e per una ragazza sarebbe stato pericoloso. L’ha scoraggiata anche il fidanzato e poi marito, mio nonno Fulvio: che bisogno c’era che studiasse anche lei, una donna. Il lavoro per lei era a casa, con i due figli, con i pranzi e le cene da far trovare pronti in tavola. Alle indicazioni di mamma e marito mia nonna si è rassegnata, perché era quello che sapeva di dover fare seguendo la sua coscienza femminile.
C’è spazio per tutto, nella storia di una vita: la perseveranza nell’esercitare un diritto perché sei donna e ne sei cosciente, e al contempo la rinuncia a un altro, perché sei donna, e ne sei cosciente.
Mia nonna Enrichetta è morta nel pomeriggio di domenica 11 febbraio. A quasi 97 anni, era una grande anziana. A fine dicembre aveva iniziato progressivamente a spegnersi; il medico aveva detto di prepararci. La nonna era entrata in uno stato continuo di sonnolenza, parlava pochissimo e male, respirava peggio. Non c’era nulla di malato: c’erano novantasei anni e nove mesi di vita alle spalle, il fascismo, la guerra, il matrimonio, i figli, i nipoti, il volontariato, la beneficienza, la messa quasi tutti i giorni, migliaia di chilometri di gomitoli di lana all’uncinetto, le protesi alle ginocchia, il cancro al seno, la mastectomia, la vedovanza. Da anni diceva di essere stanca e pronta. Non ha sorpreso nessuno di noi, non è stata una tragedia. È stato il compimento di una vita vissuta pienamente, nel nome della fede, della bontà, della generosità.
Mia nonna era e sarà sempre una delle persone più importanti della mia vita. Ho trentaquattro anni e mezzo2: alla mia età è difficile avere ancora un* nonn*. Sono stata fortunata. Un amore come quello che ho ricevuto da mia nonna e provato per mia nonna è indicibile, infatti non riesco a dirlo.
C’è spazio per tutto, all’arrivo della morte: l’accettazione serena della scomparsa, naturale e necessaria, e la sensazione sconfinata di dolore, ugualmente naturale e necessario, che provi quando una persona che per te c’è stata sempre, con cui avevi un rapporto più grande della vita stessa, tutto a un tratto non c’è più.
Mia nonna — togliamocelo subito di mezzo — era privilegiata. Insieme alle sorelle maggiori, Lorenza (che resiste a 101 anni e mezzo) e Luciana (scomparsa nel 2018) aveva ereditato dal papà dei terreni edificabili nella zona di quella che ora è via Mazzini, poco fuori la porta omonima a Bologna. Ora sono cinque minuti a piedi sotto i portici per il centro storico, allora era campagna. Mia nonna ha ereditato questo privilegio molto presto, perché il papà è morto quando lei aveva solo sei anni, nel 1933, strappato alla moglie e alle figlie piccole da una leucemia fulminante.
C’è spazio per tutto, nel privilegio: il guadagno di cui si gode in superficie, visibile, e la perdita su cui si regge, annidata nel profondo, invisibile, furtiva come la pipì che a causa del trauma mia nonna si faceva addosso nel letto del collegio delle suore, dove ha dovuto passare insieme alla sorella Luciana la sua infanzia senza padre.
Mia nonna ha avuto dei soldi suoi prima che la maggior parte delle donne italiane avessero dei soldi loro. Ma fino al 1965 la legge non permetteva a lei e le sorelle di amministrarli liberamente; prima ci ha pensato lo zio Baldo, poi il marito Fulvio. Laureato in chimica e poi farmacia, mio nonno ha iniziato a lavorare in una smalteria di Milano a metà anni 50; più avanti, negli anni 70, ha aperto un laboratorio di analisi chimico-fisiche sotto i portici di via Mazzini a Bologna. Questa è la storia che hanno sempre saputo tutti. La storia che abbiamo saputo in pochi è che i soldi per l’affitto di Milano, all’inizio, li pagava mia nonna; è che se mio nonno ha potuto aprire il laboratorio, è perché mia nonna ha venduto un immobile di sua proprietà per ottenere il denaro liquido da investire nell’attività del marito.
C’è spazio per lo spazio che a mia nonna non sempre è stato dato — e che lei non ha sentito il bisogno di prendersi — nel raccontare la carriera di suo marito.
Mia nonna voleva la patente e mio nonno era contrario. Era una donna: perché guidare la macchina? Allora lei ha preso diecimila dalle lire che possedeva, si è messa in braccio mio zio, è andata all’autoscuola e ha imparato a guidare. E ha passato l’esame al primo colpo, al contrario di mio nonno che lo aveva dovuto rifare una seconda volta. Tiè. Le altre mamme nel quartiere la ammiravano e invidiavano moltissimo perché aveva la patente, mi raccontava.
Mia nonna mi ha detto sì, assolutamente, quando per telefono dall’America un sabato mattina le ho chiesto se era femminista. Poi, come sempre durante le telefonate del sabato mattina, ha voluto sapere cosa avrei cucinato per James, il mio compagno, per cena. Con il tono di voce equivalente a una carezza, ho risposto a questa domanda ricorrente come tutte le altre volte: noi donne oggi cuciniamo solo se ne abbiamo voglia, non perché dobbiamo; se voglio cucinare, lo faccio, sennò cucina James; al giorno d’oggi cucinano anche gli uomini. “Eh bam bam, ma quanti fichi (preoccupazioni inutili) che c’avete nella testa, soccia l’óv ragaz”, mi rispondeva lei, con quelle espressioni da bolognese purosangue con cui ha intercalava la parola.
Mi ricordo bene la casa dei miei nonni a inizio giugno, mentre predisponevano la consueta fuga trimestrale dal caldo della città. Rivedo pacchi pacchetti e pacchettini bianchi impilati sul tavolo della cucina e il divanetto del corridoio, pietanze da surgelare nella casa in montagna dove il nonno sarebbe stato solo per due settimane mentre la nonna andava per conto suo al mare prima di raggiungerlo. Fulvio non aveva mai fatto da mangiare un giorno nella sua vita, raccontava sempre lei alzando gli occhi al cielo. Era dovere per mia nonna cucinare i secondi piatti e i contorni che avrebbero tenuto il marito in piedi fino al suo arrivo (sulla pasta, che per lui doveva essere fumante nel piatto all’attaccare della sigla del Tg2 delle 13, il nonno ha dovuto cedere: “Ha imparato a cucinarsi due spaghetti”, diceva mia nonna scuotendo la testa).
Non so bene se mia nonna comprendesse cosa vuol dire essere femminista, mentre preparava due settimane di carne pesce e verdure per mio nonno, o mentre dopo una breve pausa grigia riprendeva a tingersi i capelli perché a lui il grigio non piaceva. Ma voglio lasciarle lo spazio per rivendicare questo nome anche per sé. Voglio lasciare spazio al tempo di cui è figlia, senza giudizio, senza colpa, riconoscendo anche la libertà che per anni si è presa di farsi due settimane da sola al mare o alle terme a inizio giugno, ogni tanto portando anche qualcuno di noi tre nipoti guidando con la patente per cui aveva esercitato la sua autodeterminazione.
Mia nonna era una donna dall’amore, dalla bontà, dalla generosità infinita. L’Enrichetta nel mondo ha portato una quantità sconfinata bene, con forza, con gioia, con fede. Ha abbracciato il prossimo con tutta se stessa, aiutando, sostenendo, accogliendo in casa chi aveva bisogno, privandosi di ciò che aveva per dare agli altri ciò che non avevano.
Mia nonna da mio nonno non ha ricevuto solo fiori. E più di così non è giusto che dica. Mia nonna i carabinieri li ha chiamati, dall’avvocato ci è andata. Ma è rimasta, per i figli diceva, oppure per quel mistero che lega due persone senza che debba essere compreso o spiegato a chiunque altro.
C’è spazio per tutto, nel modo in cui una vita esperisce amore: può elargirlo in maniera pressoché infinita scontrandosi con il finito di chi più di tutti dovrebbe restituirglielo. Ma mia nonna non ha mai amato perché le fosse restituito. Mia nonna ha amato, punto. È stata amore di una purezza commovente.
E mio nonno, che è morto alla fine di maggio 2017 poco prima di compiere 93 anni, io l’ho amato e lo amo ancora tantissimo, pur sapendo, pur con tutte le lacrime che ho versato il giorno d’agosto in cui mia nonna mi ha raccontato, perché è tutto più complicato di così, ed è facile giudicare da fuori, finché non entri dentro.
C’è spazio per l’amore che ho nei confronti di un nonno che mi ha voluto bene, mi ha cresciuta, mi ha nutrita, e c’è spazio per la condanna risoluta di comportamenti che con l’amore non avevano nulla a che fare.
L’ultima conversazione coerente che ho avuto con mia nonna, poco meno di un mese fa, ha riguardato proprio il nonno. Era il secondo giorno della mia inchiesta, a fine mattina. Ero ancora a Bologna e il timore, la timidezza, i tentennamenti della fiducia in me stessa e nel mio progetto mi avevano bloccata prima ancora di iniziare le interviste che avevo programmato. Rientrando a mani vuote a casa dei miei, dove faccio base quando sono in Italia, mi sono fermata a salutare la nonna nel suo appartamento al piano terra della palazzina di famiglia.
La nonna mi ha fatto una bellissima sorpresa, perché non solo mi ha parlato più chiaramente e coerentemente dei suoni incomprensibili che da qualche giorno emetteva, ma mi ha anche parlato bene del nonno. Per tutta la vita insieme a lui, lei si era esercitata nella difficile acrobazia di tenere spazio dentro di lei sia per il padre-padrone, sia per il romantico-poetico che era stato il marito venuto dalla Puglia. Dopo la morte del nonno, però, nei ricordi e nei racconti della nonna riaffioravano quasi esclusivamente esperienze ed emozioni negative. “Ma non si può parlare male dei morti”, rimproverava se stessa, vergognandosi di aver dato spazio allo sfogo. Quel martedì, invece, la nonna sul nonno diceva solo cose belle (che terrò per me e la mia famiglia). Allora le ho chiesto se voleva che le leggessi quei bigliettini che lui le scriveva quando si erano appena fidanzati nei primi anni 50. Lei mi ha detto di sì. Ho letto per cinque minuti, per non stancarla, prima che arrivasse la sua badante storica con il pranzo. E lei è stata felice. Aveva gli occhi grandi e lucidi e il sorriso contento.
Dopo anni in cui i ricordi negativi del nonno avevano riempito quasi tutto lo spazio, poco prima di morire la nonna ha ritrovato spazio anche per il bello.
Nella dualità ristabilita si è manifestato l’equilibrio che l’ha resa pronta per andarsene.
Devo ancora capire come la morte di mia nonna, avvenuta verso la fine del mio viaggio-inchiesta, influenzerà la direzione del progetto e il libro che ne uscirà. È sicuro che la influenzerà: mia nonna è morta il giorno dopo che sono rientrata dalla mia ultima tappa, Palermo. Sono rientrata sabato sera in anticipo di un giorno, perché ero mentalmente e fisicamente esausta dopo tre settimane quasi ininterrotte in giro per l’Italia, raccogliendo tantissimo materiale; non riuscivo a proseguire un’ora di più. Mia nonna è morta domenica pomeriggio. Se avessi seguito i piani originari non ci sarei stata, ma c’ero, grazie al destino che ti guida sempre verso le scelte giuste, e grazie a mia nonna che, ne sono sicura, mi ha aspettato.
Oltre alla tempistica eccezionale, l’influenza della morte di mia nonna sul progetto e sul libro impiegherà settimane per chiarirsi. Per il momento mi piace pensare a questo concetto di dualità, dello spazio che dobbiamo tenere per tante cose insieme quando osserviamo la complessità della vita umana.
Mia nonna, donna del 1927, ha fatto e detto tante cose non-femministe nella sua vita, secondo i metri di giudizio moderni. Ma è stata una donna meravigliosa, buona, generosa, genuina, gentile, vera — eviterei la lista di usati e abusati sinonimi da seconda elementare se non fosse che con mia nonna trovano corrispondenza esatta nel reale — che con grazia ed eleganza ha toccato centinaia di vite (c’erano più persone al suo funerale che alla messa di Natale). È così che ha riscattato ed esercitato la libertà che i non-fiori del nonno3 le hanno spesso negato.
E per quanto riguarda i non-fiori del nonno — ed è questo il punto fondamentale — non è per loro che la nonna ha tenuto spazio. Dire che “c’è spazio per tutto” è stato un utile artificio retorico, ma in verità ci sono tante manifestazioni del comportamento umano per cui non dovrebbe esserci spazio: la violenza, l’oppressione, la misoginia, il sessismo, la discriminazione, il genocidio…
Infatti, mia nonna ha tenuto spazio per il nonno, che è molto diverso.
Proprio in questo vedo l’insegnamento che potrà influenzare la direzione del mio libro e il modo in cui ricaverò senso e coesione dalle tante storie umane che ho scoperto in giro per l’Italia. Durante il mio viaggio, ho sentito dire e visto fare tante cose che giustificano e alimentano la cultura che priva la donna della sua libertà in Italia. Nella maggior parte dei casi, chi pratica questa mentalità non ne è consapevole, anzi: con grande convinzione attribuisce questa mentalità a un generico altrui (come accenno qui). Per questa mentalità non deve esserci spazio, perché è causa di ingiustizia, sofferenza, morte; ma come togliere spazio alla mentalità senza togliere spazio all’umanità delle persone che la praticano, anche inconsapevolmente?
In altre parole, e qui chiudo: come possiamo creare spazio, con queste persone, per trovare insieme la strada verso una coscienza collettiva sulla libertà della donna?
Nonna, so che mi aiuterai a scrivere intorno a questa domanda. Ti voglio bene.
—Enrica
Nota logistica:
Un mese in giro per l’Italia, nove regioni, otto hotel, quattro aerei, quattro treni, tre macchine a noleggio, più di duemila chilometri al volante, innumerevoli storie e post su Instagram “per fare la cosa interattiva in tempo reale” (aiuto), e non ho ancora contato i paesi e le città e le persone con cui ho parlato. Sono esausta. Anche quando non ero in giro a fare interviste, stavo pianificando la tappa successiva, oppure provando a scrivere, sentendomi poco brava se non riuscivo a farlo e poco furba perché “devo cogliere qualsiasi opportunità per scrivere far leggere commentare conoscere e farmi conoscere diffondere creare rete”. Sono esausta. Decido di terminare la tappa siciliana qualche ora prima del previsto, torno a casa, tempo qualche ora la mia nonna se ne va. Il tempo che stavo provando, con fatica, a rallentare si è fermato del tutto. Sono convinta che la nonna abbia voluto dirmi di calmarmi e indirizzare il mio cuore e la mia attenzione solo verso ciò che è importante.
Per quanto riguarda il mio progetto, la cosa più importante è scrivere per la libertà delle donne. Punto. Instagram e tutto il resto sono solo strumenti, che in questo momento non si allineano con ciò che per me è importante. In questo momento vorrei solo chiudermi a scrivere le mie cose pensando che verranno lette non perché ho piegato me stessa alla logica del self-marketing a tutti i costi, anche al prezzo della salute mentale. Vorrei chiudermi a scrivere le mie cose pensando che verranno lette perché è per scrivere quelle cose che sono qui nel mondo. Mi affido allo stesso destino che ha voluto che tornassi a casa la sera prima della morte di mia nonna dopo anni e anni in cui da expat temevo che non ci sarei stata.
Ed è in questo spirito che vi dico che mollerò un po’ la presa laddove non è necessaria. Posterò su Instagram quando me la sentirò, scriverò qui su Substack quando mi verrà l’ispirazione, senza forzarla, e cercherò di stare serena che se le cose dovranno andare, andranno.
Al referendum del 1946 che ha esteso il suffragio alle donne mia nonna aveva scelto la repubblica, mi assicurava, dimenticandosi nella confusione degli anni avanzati che nel 1946 la maggiore età e il diritto di voto scattavano a ventuno anni, e lei ne aveva ancora diciannove.
Dettaglio non casuale perché proprio oggi mentre scrivo (14 febbraio, poi ho inviato il 15) mancano esattamente sei mesi al mio trentacinquesimo compleanno.
Eufemismo.
Bellissimo. ♥️
❤️