La patente di progressismo
C'è una grossa differenza tra critica costruttiva e certificazione del progressismo altrui, pratica rischiosa dalla quale anche Michela Murgia ci ha mess* in guardia.
A* compagn* di lotta chiedo di sospendere la caccia al dettaglio che rivelerebbe che una persona progressista non è progressista abbastanza. Se nei comportamenti e nelle azioni di questa persona c’è davvero del marcio, si rivelerà da sé e scaturiranno opportune riflessioni. Ma dobbiamo farci passare l’abitudine di togliere spazio alla complessità dell’esperienza progressista (e umana), soffocando la libertà di declinare la propria lotta in una diversità di espressioni, voci, punti di vista sul cammino condiviso verso un orizzonte comune.
L’altro giorno un tizio su Threads mi ha accusato di “santificare una fascista guerrafondaia” per aver detto che Hillary Clinton era “una donna esperta, preparata, adatta al lavoro per cui si era candidata” alle elezioni presidenziali del 2016:
![](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep/https%3A%2F%2Fsubstack-post-media.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2F0d7b52a6-9497-46e5-978b-d3f81001fa29_1244x1872.jpeg)
Premetto innanzitutto che questa riflessione su Threads è solo e unicamente il mio punto di vista. Non ho la pretesa di aver spiegato esaustivamente l’impasse che caratterizza la politica americana oggigiorno — tutto l’inchiostro del mondo non sarebbe sufficiente per analizzarla — né la presunzione di aver detto una cosa giusta in tutte le sue sfaccettature. Anzi, può benissimo essere che mi sbagli. Si tratta comunque di un punto di vista ragionato, basato su approfondimenti e osservazioni empiriche dopo quasi un decennio di residenza negli Stati Uniti, iniziato proprio nel 2015-2016 come giornalista che si occupava delle elezioni presidenziali di quell’anno. Frequentavo una scuola di giornalismo e ho coperto dibattiti, primarie, comizi, trovandomi a pochi metri sia da Donald Trump che da Hillary Clinton (nonché Bernie Sanders, Ted Cruz e altri meno noti). Non lo dico per vantarmi1, ma perché per quanto io non sia americana, conosco la politica americana un pochino di più dell’italiano medio.
Ammetto inoltre che non possiamo né dobbiamo dare corda a chiunque ci critichi online, perché altrimenti ciao.
Tant’è che tra tutte le critiche, quella del Vero Progressista de Roma (un giro sul profilo rivela forte risentimento nei confronti dell’Atac) è talmente miope e infondata che non dovrebbe proprio meritare attenzione. Vero Progressista de Roma ha completamente ignorato un intero ragionamento di respiro molto più ampio, con il quale credo sia difficile trovarsi in disaccordo (alzi la mano chi non pensa che l’8 novembre 2016 sia stato uno spartiacque nella storia della politica americana, che ancora oggi determina strategie, scelte… senilità), per focalizzarsi su un dettaglio che di per sé non diceva assolutamente nulla di come la penso su Hillary Clinton. “Preparata, esperta, adatta al lavoro per cui si era candidata”: vi pare una santificazione? E soprattutto, vi pare una falsità? Mi sembra un’osservazione molto, ma molto basilare. Anche Ronald Reagan era preparato, esperto, adatto al lavoro per cui si era candidato; e mannaggia a noi lo è pure Giorgia Meloni. Politicamente, sono molto lontana da entrambi questi soggetti. Se scrivo o parlo di Meloni, è sempre per esprimere rimostranze. Ma devo concedere che entrambi sono candidati adatti al lavoro che svolgono o hanno svolto, anche senza ricorrere al paragone estremo con Donald Trump (il 98% dei politici è più preparato di lui), anche se non condivido le loro politiche.
Tuttavia, presto alla critica del Vero Progressista de Roma l’attenzione che non si merita perché mi offre un esempio chiaro e fresco di stampa per parlare di un tema al quale sto riflettendo molto e che mi sta molto a cuore.
Con preoccupazione osservo in seno al campo progressista un atteggiamento molto diffuso: la caccia al dettaglio che rivelerebbe che una persona progressista non è progressista abbastanza.
Di manifestazioni di questa caccia ne sono pieni l’online e l’offline: persone o realtà che si identificano completamente nei valori e nelle lotte del transfemminismo, dell’antirazzismo, dell’antifascismo, dell’anticolonialismo, ecc. che dicono o fanno una cosa nella quale credono, che però non è considerata radicale abbastanza, e quindi vengono immediatamente screditate. Viene messo in dubbio tutto. Non importa se una persona ci crede davvero, in maniera autentica, genuina, dal profondo del cuore. Non importa se si spende davvero per quei valori. Non importa se darebbe di tutto pur che questi valori vengano portati avanti con giustizia. Viene messo in dubbio tutto.
Queste stesse mie parole mi espongono a questo rischio, ahimè.
Infatti, forse per autodifesa, metto subito le mani avanti dicendo che su questo tema delicato, nella sua applicazione al dominio femminista, ci ha fatto il regalo di esprimersi in maniera autorevole e come al solito impeccabile anche Michela Murgia, poco più di un mese prima di lasciarci, a luglio 2023:
Murgia definisce “un errore politico che in questo momento non ci sarà perdonato, non ce lo possiamo permettere” la “brutta abitudine molto diffusa di certificare il femminismo altrui”:
Non ho mai giocato a dare la patente di femminismo e mai lo farò. Riconosco la contraddizione di certe posizioni, ma credo sia irrisolvibile, proprio perché è troppo complessa questa battaglia ed è impossibile che non vi siano cortocircuiti negli atteggiamenti di chi la fa, che parte sempre e comunque sempre da una ferita personale.
[…]
Non vorrei che una sola di noi perdesse il tempo prezioso che dobbiamo dedicare alla lotta per squalificare o cercare di delegittimare il lavoro di qualcun’altra. Perché c’è solo una cosa che il patriarcato ama più del vedere due donne che litigano, ed è vedere due femministe che litigano. Non perdete tempo a decidere se la tale influencer, la tale giornalista, la tale artista sono più o meno coerenti con l’intero impianto dell’ortodossia, della mattonella dei femministi dove tenete il piede voi.
[…]
I nemici sono altri, e stanno facendo le leggi.
Credo che il messaggio di Murgia si applichi anche a situazioni dove cadiamo nella tentazione di certificare il progressismo altrui al fine, appunto, di rilasciare la patente di progressismo, pensando di esserne i soli titolari legittimi.
Ripeto, è di persone all’interno dello stesso campo intersezionale che stiamo parlando, persone che in linea generale si identificano nello stesso sistema di valori e ambiscono agli stessi orizzonti di libertà, diritti, autodeterminazione per tutt*. Persone che guardano e camminano nella stessa direzione. Persone che tutti i giorni, nel loro piccolo o grande, compiono scelte precise per rivoltare come un calzino la supremazia bianca, il razzismo, l’omotransfobia, il patriarcato, il maschilismo tossico, il colonialismo, lo specismo, l’antimeridionalismo… questo campo è vasto e variegato e pullula di quelli che Murgia nel video chiama “pasticcioni”.
Io ho tante domande aperte su quali sono i miei pasticci di progressista. Ad esempio, il mio regime alimentare contiene ancora tanta carne e non nego che questa cosa mi fa spesso sentire in difetto.
Oppure non trovo utili e produttive certe forme radicali di aut-aut: come quando durante le proteste in seguito all’omicidio di George Floyd a Minneapolis nel 2020, il sindaco democratico e progressista della città, Jacob Frey, è stato fischiato al grido di “vergogna” perché non ha voluto promettere su due piedi che avrebbe abolito il corpo di polizia. Ragazzi, andiamoci piano: Jacob Frey è uno di noi. Era lì per la strada a protestare con noi (al contrario di chi le proteste le reprime). Stava promettendo di impegnarsi insieme a noi per mettere in atto riforme del corpo di polizia profonde e fondate nei valori dell’antirazzismo. Non solo l’abolizione dei corpi di polizia è un argomento estremamente complesso, ma non sono neanche convinta che sia la soluzione, almeno non così, su due piedi.
Parafrasando Murgia, questi miei punti di vista sono cortocircuiti del pensiero progressista? Non lo so e, sinceramente, non credo. Magari, più che essere cortocircuiti, semplicemente rendono le mie posizioni su certi temi meno radicali e più moderate. E quindi? Che cosa cambia, nella sostanza, se a tutti gli effetti stiamo guardando nella stessa direzione, combattendo lo stesso nemico? Se il risultato che vogliamo ottenere è lo stesso? Non è per coda di paglia rispetto ai miei possibili pasticci, infatti, che mi appello alla bontà, all’intelligenza, alla saggezza del campo progressista perché stia attento a non esercitare forme di gatekeeping nei confronti de* propr* compagn* di lotta: è perché non lo trovo proprio giusto.
Ugualmente mi farebbe piacere che si facesse un po’ più di attenzione all’utilizzo dell’epiteto “complice”, epiteto importante che proprio per la sua gravità dobbiamo imparare a misurare.
L’amministratore delegato della Rai Roberto Sergio che fa leggere un comunicato pro-Israele a Mara Venier sul palco di Domenica in perché sullo stesso palco qualche ora prima Ghali ha invocato lo stop al genocidio dei palestinesi? Hmm, sì, puzza tanto di complicità.
Alexandria Ocasio-Cortez che viene messa con le spalle al muro perché non ha ancora avuto il coraggio di usare la parola “genocidio”, ma è stata tra i primi a prendere la parola al Congresso degli Stati Uniti per chiedere il cessate il fuoco, denunciare i soprusi di Israele nei confronti dei palestinesi e rinfacciare gli aiuti economici che finanziano quella che lei chiama “carneficina di massa” (mass slaughter) del popolo palestinese? Ora, anche a me non è del tutto chiaro perché AOC non voglia dire genocidio, ma non mi sembra neanche che in parole e opere stia altrimenti condonando la condotta di Israele. Non mi sembra di doverla ritenere complice. Credo che possiamo lasciarle lo spazio di cui ha bisogno per portare avanti la lotta per la Palestina dalla posizione privilegiata in cui si trova senza delegittimarla, perché se proprio complice deve essere, è nostra complice, non loro. Cui prodest, diceva la prof di latino, a chi giova delegittimarla? Concentriamoci sui complici loro, che forniscono armi e denaro, reprimono il dissenso democratico, prendono gli studenti a manganellate.
La penso così, e credo di potermi sentire ferma e centrata nei valori del progressismo, anche se non sono perfetta. Addirittura penso che uno dei motivi per cui sono allineata con i valori del progressismo è proprio la coscienza che la mia identità progressista ha tantissimi limiti. Ma voglio crescere e migliorarmi, continuamente, per essere sempre più inclusiva, mettermi sempre più al servizio degli oppressi e della lotta per innalzare la loro libertà.
Anzi, su AOC è del tutto possibile che io mi stia sbagliando di grosso: nel caso, invito lettrici e lettori a contattarmi per parlarne in maniera costruttiva, così che io possa capire dove e perché il mio ragionamento fa acqua e trasformare l’errore in un’opportunità di crescita.
Infatti, attenzione: irrigidirsi sulla patente di progressismo è molto diverso dal prendere da parte una persona e dirle: ehi, io lo so che tu hai detto/fatto questa cosa perché credi in certi valori, che sono gli stessi in cui credo anche io, però mi sembra che questa cosa che tu hai detto/fatto sia problematica, possiamo discuterne? Questa è una critica costruttiva a cui dobbiamo sempre fare spazio, per crescere e migliorarci continuamente. Ma giocare a dare la patente progressista salta questo passo a piè pari: la critica è destruens e non construens. È un aut-aut, come dicevo, un mettere le persone con le spalle al muro, una sottrazione di fiducia che esclude il dialogo e forme di dialettica sana che ci aiutano a crescere per confrontarci al meglio con chi invece porta avanti battaglie antitetiche alle nostre, quelli a cui si riferisce Murgia quando dice: “I nemici sono altri, e stanno facendo le leggi”.
A* compagn* di lotta chiedo quindi di sospendere questa caccia al dettaglio che rivelerebbe che una persona progressista non è progressista abbastanza. Se nei pensieri, nelle parole, nelle opere e nelle omissioni di questa persona c’è davvero del marcio, si rivelerà da sé e scaturiranno opportune riflessioni. Ma dobbiamo farci passare l’abitudine di togliere spazio alla complessità dell’esperienza progressista (e umana), soffocando la libertà di declinare la propria lotta in una diversità di espressioni, voci, punti di vista sul cammino condiviso verso un orizzonte comune.
Non ce lo possiamo permettere, ci ha ammonito Murgia. Ascoltiamola.
A tutte e a tutti un buon 8 marzo di lotta, solidarietà, compassione.
Se fossi stata socializzata uomo non mi sarebbe neanche venuto in mente di fare questa precisazione.