La disfatta agli Europei e il maschilismo del calcio italiano
L'ossessione italiana per il calcio maschile non è semplicemente tradizione, ma anche espressione della tendenza a privilegiare ciò che è dell'uomo, per l'uomo
Ammettere la sconfitta del calcio nazionale maschile, accettare il suo declino, addirittura diminuirne il peso e l’importanza per dirottarli altrove — alle Azzurre della pallavolo, per esempio, guidate con successo da un’italiana con sangue nigeriano — è un affronto all’ordine maschilista che per sua natura non tollera dissenso
Agli Europei 2024, l’Italia ha difeso il titolo conquistato nell’edizione 2020 come Biden ha difeso la propria presidenza al dibattito con Trump. Non è semplicemente andata male, come spesso accade: ce la si gioca con dignità poi si perde lo stesso, amen. In entrambi i casi la performance non è proprio pervenuta, la dignità dimenticata, lo smacco sconcertante.
Bisogna avere vissuto almeno un quarto di secolo per ricordarsi una nazionale italiana di calcio maschile di successo. Se fai parte della mia generazione, fa impressione pensarci. Io sono nata nel 1989 e di gioie azzurre, per quanto incomplete, ne ho vissute tante anche solo nei miei primi dieci anni di vita. Non avevo nemmeno un anno quando ai Mondiali in casa nostra arrivammo in semifinale. Non ricordo nulla, ovviamente, ma di recente ho trovato un filmato girato da mio nonno in cui ad appena 10 mesi agitavo il tricolore presumibilmente acquisito in allegato a qualche giornale (vi ricordate quando le edicole veicolavano preziose esperienze analogiche?) durante Italia 90:
Le emozioni dellə adultə attorno a me durante Usa 94 figurano tra i miei primi veri ricordi, seppur sfocati, in particolare la partita contro la Nigeria: il verde brillante delle magliette avversarie aveva colpito la mia immaginazione. A Francia 98 le lacrime, a Corea 2002 l’amarezza, a Germania 2006 l’estasi. Era l’estate dei miei 17 anni, con un’amica abbiamo strombazzato in motorino per i viali di Bologna per poi migrare in Piazza Maggiore, dove con la fotocamera da mezzo megapixel dei nostri cellulari senza internet abbiamo immortalato connazionali che a torso nudo si arrampicavano sui portici sventolando la bandiera bianca rossa e verde.
Ero una femmina a cui piaceva il calcio — negli anni 90 ero tifosissima del Bologna, soprattutto quando sotto le Due Torri è arrivato Roberto Baggio — anche se era ovvio, visti i modelli di campioni che portavano a casa i nostri successi, che come femmina potevo solo rimanere a guardare mentre i maschi si passavano la palla.
Da adolescente ho perso interesse per la Serie A e dopo il 2006 anche per gli Azzurri. L’ho ripreso quando mi sono trasferita all’estero e mi sono resa conto che tifare per la nazionale durante Mondiali ed Europei era un modo per professare la mia identità lontano da casa. A luglio 2021 sono finita su un telegiornale locale a Boston, dove vivevo allora, ripresa durante i festeggiamenti per la vittoria contro l’Inghilterra, forse più bimba, a quasi 32 anni, della bimba nel video del nonno di cui sopra. Compaio negli ultimi dieci secondi di questo video:
Mi sono permessa questo nostalgico excursus personale non perché voglio annoiarvi con storie di vita che non brillano per originalità (potremmo raccontare sessanta milioni di storie diverse ma uguali sulla notte del 9 luglio 2006), ma perché dimostra quanto l’attaccamento agli Azzurri durante le grandi competizioni internazionali abbia sempre trasceso la mera componente tecnico-calcistica. Del calcio in sé e per sé mi importa molto poco, ma per la Nazionale a Mondiali ed Europei ci sarò sempre, io così come tantissime altre persone. La chiamiamo tradizione, la chiamiamo cultura, la chiamiamo identità, e sono descrizioni legittime.
In questo momento storico, la nostra tradizione/cultura/identità di eccellenza nel calcio maschile è seriamente minacciata. Quando riescono a mettere insieme due passaggi di fila — e succede raramente — gli Azzurri giocano malissimo e a malapena si avvicinano all’area avversaria, figuriamoci tirare in porta. Nell’esprimere costernazione i titoli dei giornali rasentano l’offensivo, e se fosse solo nei nostri confronti andrebbe bene — ce lo meritiamo — ma gli insulti colpiscono implicitamente anche altre squadre che crediamo inferiori con la presunzione del poker di stelle sulla nostra divisa (siamo andati sotto con l’Albania!!! Siamo usciti agli ottavi con la Svizzera!!!1).
Mentre piangiamo per il pasticciaccio della nazionale di calcio maschile, l’italiano Jannik Sinner è primo nella classifica maschile dei migliori tennisti al mondo. L’italiano Gianmarco Tamberi è campione olimpico, mondiale ed europeo di salto in alto. La nazionale femminile italiana di pallavolo ha vinto la Nations League; una mia amica americana che gioca a pallavolo sostiene che Paola Egonu sia la migliore pallavolista al mondo. E sicuramente ci saranno stati altri successi azzurri extra calcistici negli ultimi mesi a cui è stata fatta poca se non nessuna pubblicità.
Abbiamo gioito per questi successi, certo, e l’entusiasmo per Sinner è notevole, ma la gioia, l’entusiasmo e l’orgoglio per i successi degli Azzurri extra calcistici sono stati tiepidi rispetto allo sconforto per la disfatta degli Azzurri del pallone. Tradizione? Cultura? Identità? Indubbiamente, ma perché se li merita solo il calcio maschile e non gli altri sport? Perché non riusciamo a sottrarre neanche un pochino di attenzione e importanza agli Azzurri del pallone ora che non stanno facendo nulla per guadagnarsele, per distribuirne qualche briciola anche a tuttə lə altrə atletə azzurrə che difendono con onore la nostra bandiera?
Si può rispondere a questa domanda in diversi modi, ma c’è una risposta che secondo me si erge al di sopra di tutte: perché il calcio della nostra tradizione, cultura e identità è quello giocato dai maschi per i maschi.
Non ho verificato questa intuizione con nessuno, ma la sostengo con forza poiché è proprio perché è giocato dai maschi per i maschi che il calcio è diventato tradizione, cultura e identità in Italia. Se gli Azzurri fossero stata una passione femminile, non sarebbe successo. Se Rivera fosse stata Gianna e Baggio fosse stata Roberta non sarebbe successo, infatti non succede quando le Azzurre si qualificano ai Mondiali di calcio e gli Azzurri invece marcano visita per due volte di fila (e il pericolo della terza non è mai stato così reale). E se il calcio nazionale maschile è diventato tradizione, cultura e identità anche per noi femmine, è perché quello che i maschi scelgono per loro è automaticamente scelto per tuttə in un tacito accordo unilaterale: i modelli maschili devono andare bene anche a noi femmine, ma gli uomini non si sognerebbero mai di far diventare loro modelli scelti da noi femmine.
Ammettere la sconfitta del calcio nazionale maschile, accettare il suo declino, addirittura diminuirne il peso e l’importanza per dirottarli altrove — alle Azzurre della pallavolo, per esempio, guidate con successo da un’italiana con sangue nigeriano — è un affronto all’ordine maschilista che per sua natura non tollera dissenso.
Decentrare il calcio maschile in Italia significa togliere spazio a un’espressione essenziale della mascolinità nostrana. Tanto essenziale che quando forze esterne minacciano la sua sopravvivenza, la forma in cui si manifesta per difendersi è spesso tossica.
All’indomani della disfatta europea, tossici sono i battibecchi tra il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina, il commissario tecnico Luciano Spalletti, i calciatori e tutti gli altri maschi bianchi che hanno diritto di parola e decisione sul futuro di una componente significativa della nostra tradizione/cultura/identità. Tossici sono i tre milioni di euro all’anno guadagnati per contratto da Spalletti, che se un* impiegatə o un* operaiə raggiungesse con il proprio lavoro risultati della stessa qualità del Ct toscano l’unico ricorso sarebbe il licenziamento. Tossica è la mancanza di umiltà di tutti questi uomini, incapaci di considerare l’ipotesi dimissioni perché condizionati dal maschilismo e dal patriarcato a pensare che è un loro diritto reclamare tutto lo spazio possibile, tenendoselo stretto anche quando l’unica cosa giusta da fare è mollare la presa.
Tossico, ma parco giochi preferito della supremazia maschile, e per questo ci teniamo il calcio maschile così com’è e continuiamo ad alimentarlo con vagonate di denaro senza sottoporlo a esami di coscienza.
“Il calcio italiano si sente al di sopra dello studio e dell’analisi. È il regno dei conservatori”, ha scritto Angelo Carotenuto su Domani in un’analisi che già conosci se hai letto la nota a piè di pagina. Regno dei conservatori perché dominio maschile per eccellenza, incapace di mettersi in discussione perché sarebbe un’ammissione di debolezza dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche: la perdita di potere e sovranità.
Non c’è da stupirsi se l’Italia è incapace di pensarsi sportivamente come altro dal calcio maschile, e non ha nessuna intenzione di ridimensionarne l’importanza e l’influenza nonostante i continui insuccessi. Nessuna sorpresa, perché il calcio maschile non è che l’ennesima espressione della tendenza italiana a privilegiare a qualsiasi costo ciò che è dell’uomo e per l’uomo.
Questo non nega che il calcio maschile sia anche tradizione, cultura e identità per il nostro paese. Certo che lo è, ed è una cosa bella che è stata e può ancora essere fonte di grande gioia. Pur criticando l’impronta maschilista di questa essenziale espressione dell’esperienza italiana, io continuerò a tifare per gli Azzurri e continuerò a sperare di poter gioire ancora di nuovi successi. Ma è importante riconoscere le radici maschiliste e patriarcali su cui questa tradizione/cultura/identità si regge — e che forse sono proprio il motivo per cui la nazionale di calcio maschile è incapace di ripensarsi in questo momento di crisi.
La scorsa settimana ho scritto una riflessione per la prima edizione di Se domani, la newsletter di
, circolo milanese del Partito Democratico. Puoi leggerla e iscriverti a Se domani seguendo il link qui sotto!Tra le tante analisi della débacle degli Azzurri ho apprezzato più di tutte quella di Angelo Carotenuto su Domani, e in particolare questo passaggio: “I declini esistono, altrimenti Ungheria e Cechia giocherebbero ancora le finali ai Mondiali”.