Dazi amari
C'è una componente esistenziale nella folle politica commerciale di Trump. I dazi sembrano la scommessa ultima su cui il presidente magnate ha deciso di giocare il suo destino nel mondo.
Questa settimana sono in viaggio-reportage in Tennessee, Arkansas, Mississippi e Alabama. Questo post è stato scritto la settimana scorsa, prima che Trump annunciasse la pausa di 90 giorni ai dazi. L’ho aggiornato di conseguenza; spero che non mi sia sfuggito nient’altro che l’evoluzione continua di questo tema non abbia già reso obsoleto.
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Il 25 aprile 1988, mentre l’Italia festeggiava la ricorrenza di un “Liberation Day” molto diverso da quello annunciato dalla Casa Bianca il 2 aprile 2025, un neanche quarantaduenne Donald Trump interveniva al famoso talk show di Oprah Winfrey.
Interrogato su cosa cambierebbe della politica estera degli Stati Uniti, il Trump con i capelli biondi di ieri risponde con gli stessi superlativi assoluti e manierismi di oggi:
Farei pagare ai nostri alleati quello che devono. Siamo una nazione debitrice. Qualcosa deve cambiare in questo Paese nei prossimi anni. Non possiamo continuare a perdere duecento miliardi di dollari, e nel frattempo lasciamo che il Giappone arrivi e scarichi tutto nei nostri mercati. Questo non è mercato libero. Se vai in Giappone e provi a vendere qualcosa — scordatelo Oprah, scordatelo. Non è che hanno delle leggi che lo proibiscono — semplicemente lo rendono impossibile.
Oprah1 ribatte:
Questo mi sa tanto di un discorso politico, presidenziale. So che alcune persone ti hanno parlato della possibilità di candidarti. Lo faresti mai?
Risponde Trump:
Probabilmente no. Ma sono stanco di vedere il Paese truffato così. […] Non credo di avere l’inclinazione per essere presidente. […] Ma sono stanco di vedere cosa succede a questo Paese, e se la situazione dovesse peggiorare, non lo escluderei completamente. Sono stanco di vedere come permettiamo ad altri Paesi di vivere come dei re, e noi invece no.
È da quando Trump ha annunciato la prima candidatura nel 2015 che questo video circola per la rete — e ancora di più in questi giorni, con il dibattito sui dazi — per la vertigine di assistere con il senno di poi a due minuti e mezzo di conversazione tra Donald Trump e Oprah Winfrey che in un normale lunedì di fine anni 80 premoniscono il destino di un popolo, di un Paese, di un mondo intero quasi quarant’anni dopo.
I tempi non sospetti in cui Trump si esprimeva a favore di politiche commerciali protezionistiche sono gli stessi in cui alla Casa Bianca sedeva Ronald Reagan, idolo del conservatorismo e paladino del mercato libero. Gli anni della deregolamentazione, della crescita incontrollata, di Wall Street al rialzo. Un altro video anni 80 che circola spesso in questi giorni è un discorso radiofonico in cui Reagan afferma che:
La strada per la prosperità di tutte le nazioni passa per il rifiuto di leggi protezionistiche e la promozione di una competizione giusta e libera. […] Quando qualcuno impone dazi sulle importazioni dall’estero, sembra che stia compiendo un atto patriottico per proteggere la manodopera e i prodotti americani. A volte, per un breve periodo di tempo, sembra che funzioni, ma solo per un breve periodo.
In un’altra coincidenza da brivido, il discorso di Reagan risale al 25 aprile 1987, esattamente un anno prima dell’intervista di Trump all’Oprah Winfrey Show:
La ricchissima ironia è che Trump ha costruito la sua fortuna proprio grazie alla congiuntura economica favorevole degli anni 80, e che per uno come lui, l’andamento dei mercati azionari è sempre stato lo specchio del successo, da imprenditore e da presidente. “Durante il primo mandato di Donald Trump […], se i mercati reagivano male al [suo] operato, con tutta probabilità cambiava rotta per allinearsi con i movimenti di Wall Street”, scrive Jonathan Lemire su The Atlantic. Trump si è anche sempre stizzito nei confronti di qualsiasi copertura mediatica lo ritraesse in maniera poco lusinghiera.
Dopo l’annuncio dei dazi, invece, il presidente è esistito per diversi giorni nella più completa noncuranza di entrambe le cose: mercati in picchiata e copertura mediatica negativa. Lemire cita la prima pagina del Wall Street Journal del 5-6 aprile come esempio lampante: “Nel mezzo del tumulto causato dai dazi, Trump va a giocare a golf”, ha titolato il quotidiano finanziario statunitense di punta, di stampo tradizionalmente conservatore. Commenta Lemire: “Eppure Trump non si è lamentato, mi ha detto un funzionario della Casa Bianca. Ed è tornato a giocare a golf”.
La pausa di 90 giorni concessa alla maggior parte dei Paesi colpiti dai dazi, così che possano raggiungere un qualche accordo con il governo degli Stati Uniti (dice Trump — non è chiaro se nella sua testa sia veramente contemplata la possibilità di raggiungere un accordo), non è di per sé indice di un cambio di rotta e atteggiamento da parte del presidente. A impanicarlo non sono stati i mercati azionari, ma la vendita massiccia dei titoli di Stato, segno di erosione della fiducia negli Stati Uniti come pilastro dell’economia mondiale. Trump sta solo acquistando tempo ulteriore per convincere il mondo che in realtà la grandezza degli Stati Uniti dipende proprio dall’attuazione della strategia commerciale che va decantando da sempre.
È in quel “da sempre” che troviamo la chiave di interpretazione più logica di un progetto economico e politico che non ha senso alcuno, se non quello esistenziale, e circoscritto a Trump, di realizzare la visione di una vita. Rispolverando l’intervista di archivio a Oprah nel contesto odierno, si prova la sensazione scomoda che la follia dei dazi sia la scommessa ultima su cui Trump ha deciso di giocare il suo destino nel mondo.
Vada come vada, potrebbe pensare Trump in questo momento. Io ho sempre sostenuto con forza che il protezionismo fosse la soluzione. Ho fatto tante scommesse spettacolari nella mia vita — non ultima la candidatura alla Casa Bianca su cui all’inizio nessuno avrebbe azzardato un centesimo — e ho sempre vinto. Ce l’ho sempre fatta. L’ho sempre scampata. Questa è l’unica e ultima occasione che ho per realizzare una visione alla quale ho sempre creduto. Se vinco di nuovo, ho vinto tutto. Se perdo… no, non è possibile, io non perdo mai.
Se questo ragionamento sembra provenire più dalla testa di un matto che quella di un governante — poiché in teoria il destino del governante dovrebbe realizzarsi non alle spese, ma di pari passo con quello del popolo governato — è proprio così. Ma ricordiamoci che gli Stati Uniti non sono più una democrazia funzionante: sono un regime autoritario travestito da democrazia. Il Paese è amministrato a misura, uso, consumo e realizzazione personale del governante, con la connivenza (spesso inconscia) di parte della popolazione. I dazi sono il capriccio dal carattere esistenziale di un autocrate che ha cuore solo il proprio destino.
Io sono fuori di me per questa storia. Non solo il mio nucleo familiare ha perso tanto denaro, anche se per fortuna abbiamo ancora tutto il tempo di recuperarlo prima della pensione.
Ma concettualmente la storia dei dazi mi sta facendo impazzire. Brucio di rabbia di fronte all’insensatezza delle misure, dei ragionamenti, della matematica. Trump si lamenta che l’Europa esporta maggiori quantità di prodotti verso gli Stati Uniti di quanto importa dagli Stati Uniti? Beh, vogliamo parlare della qualità dei prodotti statunitensi, primi tra tutti quelli alimentari? Carne e latticini provenienti dagli Stati Uniti non sono in grado di superare le frontiere della nostra Unione, perché prodotti in condizioni di qualità relativamente scarsa che viola le regolamentazioni europee. Scusaci tanto, Donald Trump, se in Europa ci rifiutiamo di “nutrirci” di cose che nutrienti non sono.
Vogliamo poi parlare dell’ossessione delle persone statunitensi per il cibo italiano, per i vini delle terre nostre e francesi? Non mi risulta che in territorio americano si produca vino di qualità comparabile.
Vogliamo infine parlare dei dazi del 50% imposti al Lesotho, i cui cittadini guadagnano meno di cinque dollari al giorno, mentre gli Stati Uniti dal Lesotho importano… diamanti! È chiaramente tutta malizia del Lesotho se i suoi abitanti non possono permettersi di acquistare neanche un pezzo di pane negli Stati Uniti — mentre le persone statunitensi sono così ricche da fidanzarsi acquistando solitari di diamante!
Il volume di importazioni ed esportazioni deriva direttamente dalla domanda di chi consuma, da entrambe le parti della transazione commerciale. La formula fintamente matematica con cui l’amministrazione Trump ha calcolato i dazi “ignora l’idea che alcuni Paesi siano migliori di altri a produrre certi prodotti, o che importare certi prodotti sia di beneficio alla popolazione statunitense”, scrive Ana Swanson sul New York Times.
È difficile pensare che Donald Trump non sappia tutto questo, o se non lui, chi nella sua amministrazione si occupa di economia commercio — ma non importa. Non gliene frega niente, a Trump. Lui sui dazi ha scommesso tutto se stesso.
Il vertiginoso effetto premonitore dell’intervista a Oprah nel 1988 ci restituisce la misura esistenziale dell’azzardo — che con la nostra esistenza, il nostro bene e il nostro destino non ha nulla a che vedere.
Ci tengo a precisare che uso il nome proprio di Winfrey perché è così che negli Stati Uniti ci si riferisce a lei — è Oprah, punto — non perché è una donna a cui non spetta l’onore del cognome riconosciuto invece a Donald Trump. Poi possiamo discutere del perché Oprah sia passata alla leggenda come Oprah e non Winfrey, ma se leggenda è, scelgo di chiamarla con il nome che l’ha consacrata.
Trump è così contro natura che fa andare al contrario la Storia: prima la farsa poi la tragedia
Grazie Enrica, articolo molto interessante! Soprattutto mi resterà la seguente frase...: La ricchissima ironia è che Trump ha costruito la sua fortuna proprio grazie alla congiuntura economica favorevole degli anni 80, e che per uno come lui, l’andamento dei mercati azionari è sempre stato lo specchio del successo, da imprenditore e da presidente.