Dal maschile sovraesteso si può guarire
Per rendere la lingua italiana più inclusiva, possiamo riflettere sul rapporto tra regole, scelte e abitudini nel suo utilizzo
Intervenire sulle abitudini con cui utilizziamo la lingua italiana, per disinnescare il meccanismo del nostro cervello che le esegue senza pensarci, ci restituisce la possibilità di scelta dopo che la creazione arbitraria di una regola ce l’aveva tolta
L’altro giorno, dopo aver aggiornato il mio documento d’identità sul sito di Poste italiane per mantenere attivo lo Spid che vivendo all’estero uso pochissimo (e che reputo il prodotto dell’ufficio complicazioni affari semplici), ho ricevuto questa email di conferma:
Ho notato con piacere e anche un po’ di stupore che i miei occhi, invece di glissare sul maschile sovraesteso come madrelingua italiana abituata a sentirlo, leggerlo e scriverlo senza accorgermene, ne hanno immediatamente registrato la presenza in tutta la sua dissonanza.
Per quanto l’Accademia della Crusca si ostini a ribattere che il maschile sovraesteso sia una forma non marcata, ovvero neutra, io non riesco più a percepirlo così. “Generico” non è una giustificazione per farmi magicamente sentire rappresentata da un genere grammaticale che non mi appartiene.
Se il maschile sovraesteso ha iniziato a balzarmi agli occhi laddove prima non sarebbe successo, è perché da qualche mese mi sto esercitando a utilizzare una scrittura che invece lo evita per essere più inclusiva.
Il cambiamento che ho avvertito nel modo in cui come parlante nativa della lingua italiana mi relaziono al maschile sovraesteso mi sembra molto importante: dimostra che non c’è niente di irreversibile nel modo in cui ci abituiamo a utilizzare una lingua.
Quando parliamo o scriviamo in italiano compiamo una serie di scelte, che a loro volta poggiano su una serie di abitudini, che a loro volta formiamo sulla base di cosiddette regole codificate dalla grammatica. Se prestiamo più attenzione alle nostre abitudini linguistiche nel tentativo di modificarle, a poco a poco inizia a cambiare anche il tipo di scelte che compiamo parlando o scrivendo. E cambia anche il nostro rapporto con certe presunte regole, che in un caso come quello del maschile sovraesteso ci appaiono nella loro insussistenza.
La forza dell’abitudine
Quando insegnavo italiano a studentə universitarə americanə, osservavo con grande interesse la difficoltà di imparare il genere grammaticale per persone la cui lingua madre non lo possiede. Benché si identificassero con il genere femminile, tante studentesse mi parlavano di sé al maschile. Anche ai più bravi poteva capitare che, all’interno di frasi altrimenti corrette, sfuggisse il maschile per un aggettivo che nel contesto richiedeva il femminile.
Oggi osservo questa difficoltà nel mio ragazzo americano mentre compie i primi passi con la nostra lingua. “Sei stanco?” mi chiede ripetendo un aggettivo che ha imparato per parlare di se stesso alla fine di una lunga giornata di lavoro. “Sei forte, coraggioso ed empatico”, mi ha scritto (con l’aiuto di Google Translate) nel biglietto di accompagnamento a un mazzo di fiori.
Il cervello di un* madrelingua inglese semplicemente non è abituato a pensare al genere grammaticale.
Noialtrə parlantə di lingue romanze lottiamo contro altre abitudini: non è raro sentire un* madrelingua spagnolə o italianə, anche avanzatə, esclamare “these people is crazy!” dimenticandosi che in inglese “la gente” è plurale. Anche se nella mia testa l’inglese è quasi paritario all’italiano, non credo che smetterò mai di dire “the police has arrested the suspect”. Il mio cervello non è proprio abituato a pensare alla polizia in numero plurale.
È lo stesso meccanismo che governa la relazione del nostro cervello di parlantə italianə con il maschile sovraesteso. Lo utilizziamo senza pensarci, lo leggiamo senza farci caso, perché siamo trascinati dalla forza dell’abitudine. Come ci spiega lo scrittore e giornalista statunitense Charles Duhigg in The Power of Habit1, un’abitudine è un comportamento che il nostro cervello ha imparato e assorbito a tal punto che metterlo in atto avviene in automatico, senza la necessità di compiere scelte particolari.
Un’abitudine ha forza proprio perché è così cristallizzata nel nostro cervello che è difficilissimo modificarla. Per cambiare un’abitudine, dobbiamo iniziare a prestare più attenzione alle scelte che intorno a essa compiamo; cosa che richiede un grande sforzo, perché, appunto, il nostro cervello non presta più attenzione alle azioni che circondano un’abitudine: semplicemente, le esegue.
Le regole non sono causa di forza maggiore
Quando si tratta di maschile sovraesteso, l’abitudine ha forza non solo perché il nostro cervello ha smesso di prestare attenzione al suo utilizzo, ma anche perché a scuola abbiamo imparato che il maschile sovraesteso non è, in ogni caso, una scelta: è una regola. E contravvenire a una regola è un errore. Intervenire sull’abitudine di utilizzare il maschile sovraesteso per scegliere un linguaggio più inclusivo, quindi, significherebbe patrocinare un uso scorretto dell’italiano.
Il rapporto tra regole e scelte è alla base della grammatica. Al mio primo anno di università (mi sono laureata, triennale e magistrale, presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università di Bologna), il professor Michele Prandi ha impostato il corso di introduzione alla linguistica italiana — che amai tantissimo — proprio sull’analisi di questo rapporto. Dice Prandi nel suo Le regole e le scelte (appunto!): “Una lingua contiene un nucleo di strutture rigide e non negoziabili, circondato da un ampio repertorio di opzioni aperte alle scelte del parlante. […] Di fronte alla lingua, il parlante è al tempo stesso sottomesso e libero, passivo e attivo, irresponsabile e responsabile: deve seguire passivamente regole ferree, ma è anche soggetto responsabile di scelte”2.
Facendo un passo indietro a distanza di più di quindici anni, rifletto sul fatto che anche le regole stesse, in fondo, sono il frutto di scelte precise e consapevoli.
Ad esempio, Prandi classifica “la struttura delle parole, dei suoni e delle sillabe” come regola rigida — ma in realtà non è così rigida come sembra: la lingua portoghese (per fare un esempio che conosco) è soggetta a continue riforme ortografiche. Se una volta “ottimo” in portoghese si scriveva óptimo, ora si scrive ótimo.
E davvero bisogna ignorare l’evidenza di secoli di supremazia maschile per sostenere che la codificazione del maschile sovraesteso nella grammatica tradizionale delle lingue romanze non derivi da una scelta. Certo che è stata una scelta, dovuta all’abitudine di considerare tutto ciò che è maschile come superiore al femminile.
Per questo, quando si parla di linguaggio inclusivo, credo che scelte e abitudini possano avere una forza molto maggiore delle regole. Perché intervenire sulle abitudini con cui utilizziamo la lingua italiana, per disinnescare il meccanismo del nostro cervello che le esegue senza pensarci, ci restituisce la possibilità di scelta dopo che la creazione arbitraria di una regola ce l’aveva tolta.
Sperimentare con l’utilizzo di un linguaggio inclusivo ha fermato la ruota del mio cervello che scriveva, leggeva, sentiva il maschile sovraesteso per abitudine; mi ha restituito la capacità di prestare attenzione al genere delle parole che utilizzo quando parlo di persone; ha resettato le regole che avevo imparato sul maschile sovraesteso, mostrandomelo in tutta la sua inconsistenza e, soprattutto, in tutta la sua reversibilità.
Dal maschile sovraesteso si può guarire, perché le nostre scelte sanno essere molto più forti delle regole che ci vengono imposte.
Scegliete di prestare attenzione alle vostre abitudini, e vedete l’effetto che fa.
Il potere delle abitudini. Come si formano, quanto ci condizionano, come cambiarle, pubblicato in Italia da TEA nella traduzione di Marco Silvio Sartori.
Michele Prandi, Le regole e le scelte. Grammatica italiana, UTET Università, Torino 2008
Essere "soggetti responsabili di scelte" quando sfidiamo le consuetudini che abbiamo assimilato come regole: è un concetto molto forte, grazie per averlo condiviso.
Anche io sono emigrata da anni, lo spagnolo è la mia seconda lingua quotidiana dopo l'italiano, eppure certi meccanismi automatici sono difficili da scardinare (il genere di certi sostantivi, per esempio, diverso tra spagnolo e italiano).
Eppure il maschile sovraesteso (che esiste anche in spagnolo) è molto di più, perché parla alla mia identità. E io, quando leggo un testo rivolto a me cittadina come quello delle Poste, non mi sento rappresentata in quel maschile.
Se il maschile sovraesteso è la diagnosi, lo schwa non può certo essere la terapia.