Ancora un po' sul privilegio
Non necessariamente una storia umana marginalmente più felice è nemica di una storia umana marginalmente più infelice
La Settimana Santa della cultura pop italiana — come viene spesso chiamato (non da me, non di solito) il Festival di Sanremo — ci ha regalato un ottimo esempio dell’uso improduttivo della parola “privilegio” su cui riflettevamo nell’ultima puntata di Anche una donna qui: le critiche avanzate alla canzone di Simone Cristicchi Quando sarai piccola, almeno in buona parte della mia bolla social.
Premetto che non sono un’esperta di musica e non ho gli strumenti per giudicare il valore oggettivo di una canzone al di là del “mi piace” o “non mi piace” basato su emozioni di pancia (se siete interessati ad analisi di musica in un’ottica esperta e femminista, vi rimando a Let's Go Girls! di
). Premetto anche che non provo nessun interesse per Simone Cristicchi, né in positivo, né in negativo. Premetto infine che al primo ascolto la mia pancia ha archiviato Quando sarai piccola nel file “non è niente di che”. Non ho provato chissà quali emozioni, ma non perché non ci sia di che commuoversi con un testo dedicato da un figlio alla madre resa invalida da una malattia, anzi! Il fatto è che vivendo all’estero, lontana dalla mia famiglia, io galleggio quotidianamente in uno stato perpetuo di emozione e preoccupazione al loro pensiero. Lo stato d’animo evocato dalla canzone di Cristicchi è la mia impostazione di default; il rubinetto di lacrime su cui fa leva è perennemente aperto per me (pensate che vita…!). Non è una canzone a fare la differenza, anche perché ho imparato molto bene a controllare questo tipo di emozioni quando non sono nella disposizione giusta per gestirle.Fatte queste premesse per chiarire che non sono qui a parlare di o difendere Simone Cristicchi, ma ad analizzare un fenomeno diffuso nel discorso socio-politico-culturale odierno, passo alla disamina delle critiche alla canzone:
Il racconto della cura del figlio per la madre sarebbe una “romanticizzazione” del declino psicofisico causato da invalidità e/o vecchiaia;
La romanticizzazione, così come lo stesso lavoro di cura, sarebbero possibili grazie a una situazione di — indovinate — privilegio;
La spettacolarizzazione di questo privilegio sul palco dell’Ariston creerebbe senso di colpa in chi non può, o non vuole, prendersi cura di una persona cara che ne ha bisogno.
Anche in questo caso il concetto di privilegio viene utilizzato per creare una divisione improduttiva tra gruppi sociali che in realtà condividono molto di più (il rapporto con una persona cara che ha bisogno di cure costanti) di quanto li renda diversi (la configurazione di questo lavoro di cura, che avvenga in famiglia, o in una RSA, o in altro modo). Alle differenze viene assegnata un’importanza sproporzionata, con un duplice effetto: da un lato, la responsabilità per l’esistenza di configurazioni del lavoro di cura marginalmente peggiori di altre viene attribuita a chi “gode” di una situazione marginalmente migliore — non alle strutture sociali, politiche ed economiche che creano disuguaglianza.
Dall’altro, l’esperienza della persona nella situazione marginalmente migliore viene invalidata, banalizzata, o addirittura condannata. Questo aspetto si collega al secondo utilizzo del concetto di “privilegio” a cui accennavo la scorsa settimana (il cui significato dovrebbe essere esaurito in questo secondo e, penso, ultimo post dedicato al tema): il privilegio come espediente retorico per invalidare le opinioni/esperienze altrui e rifiutare opportunità di sano confronto.
Diciamoci la verità: nulla nel testo di Cristicchi suggerisce chissà quale situazione invidiabile che il cantante ha la fortuna di vivere insieme alla madre portatrice di disabilità in seguito a un’emorragia cerebrale. È altresì ragionevole pensare che Cristicchi abbia maggiori disponibilità economiche della media italiana, e che quindi possa passare più tempo con sua madre mentre le royalties di Ti regalerò una rosa lavorano al suo posto. Beh, sapete cosa penso? Buon per lui! Non è responsabilità di Simone Cristicchi evitare di “far sentire in colpa” o “urtare” chi non può dedicare più tempo al lavoro di cura per motivi lavorativi o economici. Queste persone sono vittime di un’evidente ingiustizia, e nessunə gliela nega: il punto è che l’ingiustizia non è perpetrata da chi gode di un vantaggio marginale, la cui presenza o assenza è assolutamente insignificante per chi non ne beneficia.
Come ha scritto
in una serie di storie in cui smonta l’idea che andare in vacanza sia un privilegio (benvenutə nell’era in cui le storie di Instagram sono fonte di citazione):Di fronte alla negazione di un diritto la risposta non è la compassione paralitica del senso di colpa. Insomma, non dobbiamo evitare di andare in vacanza (o postare foto del mare) ‘perché qualcuno potrebbe rimanerci male’. Chi ha difficoltà economiche non ha bisogno di protezione mediatica dai trigger ma di una sana indignazione nei confronti di chi impedisce loro di condurre una vita normale.
Sostituiamo “andare in vacanza o postare foto del mare” con “parlare del tempo che dedico alla cura di mia madre” e la logica è la stessa.
Il testo di Cristicchi non manca di rispetto alle persone che hanno un rapporto diverso dal suo con il lavoro di cura. Suvvia, Cristicchi ha tutto il diritto di parlare della sua esperienza di cura di sua madre nella sua canzone; un’altra persona scriverà una canzone diversa che riflette un’esperienza diversa con una madre diversa. Entrambe le storie hanno valore per il semplice fatto di esistere come testimonianze di un rapporto umano, che è per sua natura complesso, e in quanto complesso si manifesta in molteplici forme. Nel momento in cui non sussistono dinamiche di oppressione tra l’una e l’altra, tutte queste forme hanno il diritto allo spazio del racconto. Non è un gioco a somma zero.
(Un discorso molto diverso va fatto per Bella stronza di Marco Masini, che è un vero e proprio inno alla violenza contro le donne, poco importa che descriva il vissuto particolare del cantante alla fine di una relazione.)
Non insisterei così tanto sull’argomento se non fosse che mi sembra centrale nel discorso socio-politico-culturale odierno. Dobbiamo prestare molta attenzione a questa tendenza che abbiamo di negare la complessità dell’esperienza umana, la possibilità che esistano più maniere di raccontare una stessa storia e che sì, a volte ci siano storie marginalmente più felici di altre. Non necessariamente una storia umana marginalmente più felice è nemica di una storia umana marginalmente più infelice. Più spesso, molto più spesso, la vera nemica ultima è la sovrastruttura che crea disuguaglianze e le perpetua nel tempo.
Faccio un ultimo esempio personale (ormai spero si sia capito che quando condivido esperienze personali non voglio parlare di me stessa a vanvera ma, come mi disse una collega anni fa, e mi rimarrà per sempre in testa, “la mia esperienza personale è il modo in cui comprendo il mondo”).
Io parlo spesso di come l’anno scorso ho avuto la fortuna (il destino? il caso? il divino? non lo so, ma so per certo che quanto è accaduto non risponde alla definizione di privilegio) di trovarmi in Italia al momento della morte di mia nonna. Avevo sempre temuto che mi sarei persa questo evento; poter essere presente è stata un’esperienza speciale, che ha trasformato completamente la dimensione del dolore. Mi piace parlarne, perché è e rimarrà sempre un’esperienza fondamentale nella mia vita.
Leggendo le critiche al pezzo di Cristicchi, però, mi sono chiesta se non farei meglio a starmene zitta — sia mai che urtassi o facessi sentire in colpa chi non ha avuto la mia stessa fortuna o come la vogliamo chiamare?
La risposta che mi sono data è no. Perché sì, è giusto sentirci autorizzati a vivere e raccontare un’esperienza per noi importante, nella maniera che funziona per noi, quando non c’è traccia di “male” perpetrato ad altre persone che hanno fatto esperienze diverse.1 È giusto celebrare le gioie e le vittorie e anche i vantaggi marginali altrui, quando in nessun modo rappresentano sconfitta e oppressione. Dovremmo anzi farlo più spesso.
Inibire o addirittura proibire il racconto di un’esperienza umana sulla base di un presunto “privilegio” che spesso non è — in assenza, ripeto, di una dinamica di oppressione che ne risulta — è un’abitudine che abbiamo preso che è molto pericolosa, perché parte da una visione soffocante della realtà, dove non ci sarebbe spazio per la complessità di una molteplicità di vissuti imperfetti, alcuni più felici di altri, ma non per questo privi della possibilità di arricchirci.
Qui chiudo la breve rassegna sull’uso e abuso del concetto di privilegio. Se la discussione ti ha provocato, sarei felice se volessi lasciare un commento per approfondire insieme!
Poi, come al solito, ti lascio una serie di strumenti per invitarti a sostenere il mio lavoro. Può sembrare un invito privo di tatto, ma la verità è che 1) lo fanno tuttə su Substack, è la prassi per chi scrive in maniera indipendente, e non dobbiamo vergognarci! 2) chi scrive in maniera indipendente ha bisogno del sostegno di chi ci fa il regalo immenso di leggerci: voi non sapete che gioia provo ogni volta che ricevo notifica di un cuoricino o una condivisione di questi testi. Significa moltissimo per me, e voglio che lo sappiate, e che sappiate che se l’orizzonte del mio lavoro può ampliarsi, è in larga misura solo grazie a voi.
Infine, vi lascio il link alla mia pagina su Ko-Fi dove è possibile sostenere il mio lavoro con la famosa metafora del “ti offro un caffè” 😊 Grazie di 🩵!
Tra l’altro, dettaglio non da poco, due nonni su quattro sono morti mentre mi trovavo all’estero senza possibilità di rientrare in Italia (nel senso che lasciare gli Stati Uniti avrebbe annullato le mie pratiche di visto lavorativo). Al funerale di uno dei due ho assistito via FaceTime alle sei di un sabato mattina dal mio letto a Somerville, Massachusetts. Privilegio, perché mio fratello e mia sorella mi hanno messo in video tenendo il telefonino alzato in chiesa? Perché avevo la connessione internet? Perché FaceTime si fa con l’iPhone e il costo dell’iPhone è superiore alla media dei cellulari? Dài, suvvia. Questo per dire che so bene cosa significa non poter presenziare alla morte di una persona cara, e anche per quello sono stata felice di poterlo fare per una volta.
Riconoscere di avere avuto l’opportunità di vivere situazioni “belle”, e senza nessuna dinamica di oppressione, crea gratitudine, e la gratitudine alimenta l’anima. Ti sono grata per aver letto i tuoi pensieri.
Grazie di cuore per la menzione, Enrica 🩷 Questa newsletter è stata davvero necessaria. Grazie per i tuoi pensieri, mai banai!