A lezione di cittadinanza statunitense
“Mi meraviglia quante persone ancora vogliono diventare cittadine”, ha detto l'insegnante di un corso di educazione civica che prepara al colloquio per ottenere la cittadinanza americana
Prima di partire, due annunci!
di e io abbiamo scritto una riflessione sui doppi standard che permangono nel trattamento in società delle donne che denunciano una violenza di genere e degli uomini accusati di perpetrarla:
La cantante e attivista bolognese Lecicia Sorri ha pubblicato il suo primo EP, art.110, 1° co.! Qui l’album su Spotify. Disclaimer: Lecicia Sorri è mia cugina. Ma non è per questo che ve la consiglio: è perché la musica di Lecicia è un manifesto politico e sociale. La forma artistica è uno strumento per veicolare un messaggio autentico, preciso e potente di trasformazione dell’umanità.
Hector ha sessant’anni, un orecchino a forma di aeroplano al lobo sinistro e fa il falegname. In testa un cappellino della NASCAR, il maggiore ente organizzatore di corse automobilistiche negli Stati Uniti, da cui spuntano ciuffi di capelli brizzolati; indosso un bomber mimetico a macchie bianche e nere, con una toppa sulla manica destra che reca la scritta U.S. Army, Esercito degli Stati Uniti, in lettere dorate. La carnagione chiara evidenzia il volto magro e scavato dalle rughe.
Potrebbe essere la descrizione di un qualsiasi uomo della classe lavoratrice in una zona rurale degli Stati Uniti; invece no. Hector è messicano, originario di Guadalajara, e nonostante viva negli Stati Uniti da 33 anni, per la legge un americano ancora non si può chiamarlo. Almeno finché non giunge al termine del cammino per ottenere la cittadinanza, che Hector sta percorrendo proprio ora.
È così che nel tardo pomeriggio di un lunedì di fine marzo, Hector ha guidato per venti chilometri dalla cittadina di Lafayette in Colorado, dove vive, alla biblioteca pubblica di Boulder, per andare a lezione di educazione civica statunitense.
“Freedom of speech”, la libertà di parola, risponde Hector con accento ispanico quando Anita, l’insegnante, chiede alla classe di nominare due diritti contenuti nella Dichiarazione di Indipendenza.
“Pursuit of happiness”, la ricerca della felicità, aggiunge Tom1, un uomo basso con la giacca nera e un casco di capelli bianchi che invece si esprime con un accento anglofono chiaramente nativo. “Un concetto rivoluzionario, se ci pensiamo”, riflette Tom, che a fine lezione rivela le origini australiane. “Quante volte sentiamo riferimenti alla ricerca della felicità in politica?”
Anita concorda: “Sì, quando nella Dichiarazione di Indipendenza leggi ‘vita, libertà e ricerca della felicità’ è davvero piuttosto incredibile”. Poi domanda: “Vi ricordate chi l’ha scritta?”
È Hector a dare la risposta giusta: Thomas Jefferson.
Anita sorride soddisfatta. “Voi non siete cresciuti sentendo questi nomi a scuola. Sono nuovi per voi. Sono difficili da ricordare”.

Le citizenship classes sono lezioni di educazione civica in preparazione al colloquio orale previsto dal percorso di naturalizzazione di una persona immigrata come cittadinə degli Stati Uniti. Dispensano nozioni di storia e governo e vengono offerte gratuitamente in tutto il Paese da centinaia di servizi e organizzazioni, su iniziativa indipendente dall’amministrazione federale.
Durante il colloquio orale per la cittadinanza, unə funzionariə di United States Citizenship and Immigration Services2, l’agenzia federale che gestisce il sistema di naturalizzazione e immigrazione, sceglie dieci domande sulla storia e il governo degli Stati Uniti da una lista di cento. Per passare, lə candidatə deve dare sei risposte giuste. Il colloquio prevede anche la verifica delle competenze linguistiche, con un test scritto e orale in inglese (molti servizi offrono anche lezioni di lingua in preparazione al colloquio).
La cento domande sono prestabilite, quelle sono e quelle rimangono3 senza sorprese o richieste di ragionamenti particolari in sede di colloquio, che a seconda delle competenze storiche e linguistiche pregresse dellə candidatə può trattarsi di una formalità. Questo non significa che la prova non richieda preparazione, e che anche una persona americana potrebbe inciampare su certe domande. Per tante persone immigrate l’ostacolo maggiore non è la memorizzazione di fatti e concetti, che sono relativamente semplici, ma la capacità di articolarli con scioltezza in inglese.
Questo lunedì di fine marzo non è la prima volta che partecipo come osservatrice a una lezione di cittadinanza. La prima, nove primavere fa, Barack Obama stava completando il secondo mandato da presidente. Le primarie per l’elezione presidenziale che si sarebbe tenuta l’8 novembre erano in pieno svolgimento; l’ipotesi Donald Trump come successore di Obama richiedeva ancora acrobazie mentali ingarbugliate e in fondo improponibili.
Io vivevo a Chicago, avevo ventisei-quasi-ventisette anni, frequentavo la scuola di giornalismo con un visto studentesco e il principale filtro con cui decostruivo la realtà era l’immigrazione. Da una parte le persone con cittadinanza o residenza permanente (green card) americana, per cui era più facile trovare lavoro. Dall’altra quelle senza cittadinanza (come se “senza” non implicasse un “con” cittadinanza altrettanto valida), per cui era più difficile. Io facevo parte del secondo gruppo e ne soffrivo.
Nella primavera del 2016, mi immersi nel percorso per ottenere la cittadinanza di persone immigrate negli Stati Uniti dal Messico e dal Vietnam. Ne uscì questo articolo, dove il tema dominante, sin dal titolo, è il senso di solitudine di chi non sente di appartenere al Paese in cui vive.

Quasi dieci anni dopo, se voglio, può toccare a me. A luglio 2025, tre mesi prima del quinto anniversario della mia green card il 29 ottobre4, divento ufficialmente idonea a presentare domanda per la cittadinanza statunitense.
Se voglio.
Chissà cosa penserebbe la ventiseienne in pena che scriveva di cittadinanza alla ricerca di catarsi migratoria, se le dicessi che si sarebbe trasformata in una trentacinquenne non convinta di voler diventare cittadina americana.
Trump non è il motivo della mia indecisione; semmai, aggiunge complessità a un quesito che contemplo da tanto e che pensavo di poter rimandare all’infinito dei cinque anni dalla green card, come se Max Pezzali non mi avesse insegnato che “a sedici anni un anno dura una vita e a trenta sei già lì”.
Io ho sempre attribuito alla cittadinanza una componente identitaria che in realtà, ho capito di recente leggendo Citizenship dello studioso Dimitry Kochenov5, è del tutto irrilevante. Come l’esempio italiano illumina a chiare lettere, la cittadinanza è innanzitutto uno strumento di controllo politico. L’identità nazionale non ha nulla a che fare con il passaporto con cui ci si presenta alla frontiera, e dovrei saperlo bene io che sostengo la causa dellə italianə senza cittadinanza con così tanta forza che mi sono offerta volontaria per fare campagna tra lə italianə all’estero per il sì al referendum di giugno.
Ciononostante, l’idea di aggiungere la cittadinanza americana a quella italiana mi mette a disagio perché temo che simboleggi uno strappo dall’Italia più netto di quanto io desideri. Non è così — io vivo a metà tra Stati Uniti e Italia e rimarrò sempre, profondamente se non unicamente, italiana — ma ho il privilegio (questo sì che lo è) di poter indugiare su tali quesiti esistenziali, e in essi mi immergo.
Sarà la mia emotività e tendenza a complicare affari semplici e chissà, forse con i tempi che corrono pubblicare queste parole mi costerà caro, ma io nelle formule “rinuncio la mia fedeltà a qualsiasi altro stato sovrano” e “imbraccerò le armi per gli Stati Uniti” contenute nel giuramento per la cittadinanza sento più di una formalità. Fatico a pensare di pronunciarle.
È in questo contesto a metà tra il personale, in questa fase della mia vita, e il politico, in questo momento della storia americana, che ho voluto partecipare nuovamente a una lezione di cittadinanza.

Sono le cinque e mezza del pomeriggio, e Anita comincia la lezione osservando che un po’ perché “è ora di cena” (l’accostamento di “cinque del pomeriggio” e “cena” non smetterà mai di causare straniamento in me), un po’ perché per le scuole di Boulder è la settimana di pausa primaverile (spring break), oggi lə studentə sono solo quattro.
C’è Hector, c’è Tom e poi ci sono Paula, dalla Spagna, e Carmen, dal Messico, anche lei di Guadalajara come Hector. Anita chiede a Paula se ha “preso una decisione”: Paula, che a occhio avrà una settantina d’anni, scuote la testa. Capisco che la spagnola, come me già titolare di un potente passaporto europeo, non sa ancora se vorrà diventare anche americana. Nel frattempo viene a lezione.
“Nomina tre delle tredici colonie originali”, legge Anita da una delle schede rosse che aiutano a memorizzare le cento domande e risposte con un metodo di studio tipicamente americano e utilizzato nelle scuole di ogni ordine e grado, compresa l’università: le flash cards. Sono bigliettini che sul dorso recano un concetto (esempio: “Costituzione”) o una domanda (“chi ha scritto la Costituzione?”) e sul retro la spiegazione del concetto o la risposta alla domanda. Prima di una verifica o esame, negli Stati Uniti, lə studentə non ripassano chinə su libri, appunti e schematizzazioni, ma scorrono tra le mani una flash card dopo l’altra.
Carmen, la più giovane del gruppo sulla cinquantina, comincia a rispondere con un forte accento ispanico e una pronuncia da lingue romanze: Birginia, South Carolina, Coneticoot. Anita coinvolge il resto della classe per elencare tutte le tredici colonie sulla costa atlantica che nel 1776 dichiararono l’indipendenza dalla Gran Bretagna portando alla creazione degli Stati Uniti. Carmen, Tom, Paula e Hector le nominano a poco a poco: Georgia, Maryland, Massachusetts, New Hampshire, New Jersey, New York, North Carolina, Pennsylvania. Ne mancano due: le colonie che oggi sono stati piccoli e riservati, e spesso sfuggono alla memoria. Cala il silenzio mentre lə futurə cittadinə si sforzano di ricordare.
“Rhode Island!”, dice infine Tom. “Delaware!”, completa la lista Hector.
“Good, good”, sorride Anita. La donna, nata e cresciuta a Los Angeles da genitori canadesi, ha 83 anni e tiene lezioni di cittadinanza americana alla biblioteca di Boulder da venti. All’inizio percepiva un piccolo compenso che a malapena copriva la benzina per arrivare in biblioteca; ora le viene corrisposto un salario, che immagino comunque esiguo. Ma quello di Anita non è un lavoro: è un servizio di gratuita compassione, vicinanza e amicizia alle persone immigrate.
“Ho amato essere madre e crescere i miei figli, ma questa è la seconda cosa più bella che io abbia mai fatto”, mi racconta a fine lezione. Facendo i conti di vent’anni, Anita ha insegnato a persone provenienti da più di novanta Paesi.
“Ho incontrato persone incredibili, tantissime storie individuali”, continua. “Per me queste persone diventano famiglia. E sono così riconoscenti. Nessuno le obbliga a diventare cittadine”.
Stiamo chiacchierando in una saletta della biblioteca pubblica di Boulder, toponimo che ormai è diventato sinonimo di élite intellettuale di sinistra tanto quanto Berkeley in California o Cambridge e Somerville in Massachusetts, dove io e James vivevamo prima. Non devo chiedere ad Anita cosa pensa della situazione politica attuale: lo sento, e semplicemente lo so. Basta pensare a quello che sta facendo, o guardare dove ci troviamo. Lei mi spiega che cerca sempre di tenere la politica fuori dalla classe, ma è molto difficile, soprattutto ora. “Non ho mai visto nulla del genere”, sospira Anita. “Gli anni Sessanta sono stati orribili. Ma oggi è peggio. Sono molto triste”.
Chiedo ad Anita cosa direbbe a una persona immigrata negli Stati Uniti che non sa se vuole diventare cittadina, specialmente in questo momento storico, per convincerla che invece ne vale la pena. Cosa direbbe a me, insomma.
“Direi che non si tratta di ciò che questo Paese è oggi, ma di ciò che questo Paese si sforza di essere”, risponde senza esitazione. “Io provo una vergogna immensa per quello che sta accadendo. Ma ci sono tantissime persone là fuori che si impegnano affinché questo Paese rimanga quello che era”.
Mentre prendiamo l’ascensore dal secondo piano per evitare una rampa di scale che a 83 anni comporta fatica, osservo con Anita che la progressiva trasformazione degli Stati Uniti in un regime autoritario non sembra ancora aver scalfito la loro attrattiva da un punto di vista economico e professionale. Gli Stati Uniti rimangono un Paese ricchissimo di denaro, università e istituzioni prestigiose e opportunità lavorative oggettivamente impareggiabili per chiunque sia interessatə, a qualunque livello di istruzione e competenze.
È per questo che possiamo dividere le persone immigrate idonee alla cittadinanza in due gruppi. Da una parte c’è chi, come me, si può materialmente permettere di indugiare di fronte all’opportunità di diventare cittadina, perdersi in quisquilie filosofiche sul rapporto tra cittadinanza e identità, dare la priorità a valori e principi esprimendo dissenso verso un regime politico che va distruggendoli uno per uno. Tanto nel cassetto c’ho il libricino rosso borgogna intitolato Unione Europea Repubblica Italiana.
Dall’altra ci sono persone per cui un passaporto statunitense cambia la vita, oggi come ieri e probabilmente ancora per tanti domani.
“Mi meraviglia quante persone ancora vogliono diventare cittadine”, mi dice Anita uscendo dalla biblioteca nell’azzurro pallido del cielo preserale. Anche con Trump al governo, l’America è ancora l’America.
Per tantissimi anni, Hector ha vissuto e lavorato, si è sposato e ha avuto tre figli negli Stati Uniti senza documenti di soggiorno. Sei anni fa, grazie alla figlia nata in territorio statunitense, ha finalmente ottenuto la green card. In tutti questi anni non è mai tornato in Messico, non solo per timore di essere bloccato al rientro negli Stati Uniti, ma anche perché in fondo il suo paese è l’America.
“Ormai mi ero abituato a vivere negli Stati Uniti”, racconta alternando lo spagnolo all’inglese. “Mi sento più americano che messicano”.
Diventare ufficialmente cittadino del Paese che per lui è casa significa poter votare, eleggere il presidente e “sentirsi parte di questa cultura”, dice.
In poche parole, conclude Hector mettendo sottobraccio il blocco di appunti presi a lezione di cittadinanza statunitense, “cambia la vida”.
Nome di fantasia, su richiesta dell’insegnante. Solo Hector e Anita sono nomi veri in questo articolo.
USCIS, per chi come me ha vissuto, mangiato e dormito per lunghi anni insieme a questa agenzia.
Ogni tanto, ma raramente, la lista di domande viene aggiornata. L’ultima revisione risale al 2008: secondo Anita, è passato abbastanza tempo per aspettarsi dei cambiamenti nel breve termine.
Chi ha ottenuto la green card per via lavorativa deve aspettare cinque anni. Chi invece l’ha ottenuta per via matrimoniale può fare domanda di cittadinanza dopo tre.