Si può desiderare meno inglese in italiano senza essere fascisti?
Io penso di sì: non si tratta di conservare la purezza della lingua, ma di riscoprire la sua capacità di innovare tramite le parole ed essere strumento di progresso
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Tra le tante libertà che il fascismo ha rubato e continua a rubare all’Italia, c’è la libertà di desiderare una lingua italiana meno contaminata dall’inglese senza rischiare di compromettere la propria lealtà alla sinistra e ai suoi valori.
Mi è sempre rimasto impresso il commento di una linguista (di cui purtroppo non ricordo il nome) che lessi tanti anni fa in un articolo del Venerdì di Repubblica sul dilagare di parole ed espressioni inglesi in italiano. La linguista spiegava come sia stato proprio a causa dell’operazione fascista di purga delle parole straniere dall’italiano per preservarne la presunta “purezza” che nei decenni a venire linguiste e linguisti si sono guardatə dal calmierare l’ingresso dei forestierismi nel nostro lessico. Vista la nostra storia, il rischio di qualsiasi iniziativa a tutela dell’italiano è sempre stato quello di replicare l’impronta reazionaria del governo Mussolini.1
Infatti, chi oggi non teme i possibili risvolti autocratici di un’iniziativa contro i forestierismi indiscriminati è proprio il partito che di Mussolini è erede. A un secolo dalle purghe del regime, nel 2023 Fratelli d’Italia ha introdotto una proposta di legge che impone l’obbligo della lingua italiana in vari ambiti della comunicazione, dell’informazione e nella presentazione di beni e servizi di enti pubblici e privati, sanzionando le violazioni con multe fino a centomila euro.
Sono iniziative orwelliane, ridicole e antitetiche al libero funzionamento e alla naturale vivacità e spontaneità di una lingua.
Eppure, in un angolino timido e silenzioso dentro di me, penso che sarebbe bello se come parlanti dell’italiano riuscissimo a contenere l’uso spasmodico dell’inglese nella nostra lingua autonomamente, senza le modalità coercitive, conservatrici e propagandistiche del governo. Non solo: sarebbe bello anche sottrarre l’interesse per la tutela della lingua italiana dal monopolio delle correnti reazionarie, per cui allergia al troppo inglese = fascismo.
Questa equivalenza, in senso assoluto, è falsa. Ma per paura di finirne anche io vittima, ho sempre tenuto questi pensieri per me e poche persone fidate. Finché non mi sono imbattuta in questo passaggio di un articolo di Tullio De Mauro, linguista illustre che fascista non è mai stato, su Internazionale nel luglio 2016:
A chi conosce a fondo una lingua straniera non viene nemmeno in mente di esibirla fuori tempo e luogo.
Vera Gheno, altra linguista illustre che fascista non è mai stata, ha espresso lo stesso concetto su Valigia Blu nel marzo 2021, riprendendo un commento di Mario Draghi:
Nonostante la buona competenza di inglese che il Presidente esibisce, egli si dice infastidito dalla sua presenza in un testo italiano: come è possibile conciliare queste due posizioni apparentemente in contrasto?
È possibile, eccome, perché non c’è alcuna contraddizione, nelle parole di Draghi: il suo è un disagio legato alla conoscenza, non all’ignoranza; è il disagio di una persona che “frequenta” abitualmente più lingue e che non apprezza quando un idioma tra quelli che conosce viene usato fuori contesto, senza una vera necessità.
Ta-da! No, vivendo all’estero in lingua inglese, il desiderio che provo di tornare in italiano e parlare un italiano privo di anglicismi inutili non è fascismo latente: semplicemente, è che più conosci l’inglese, più fatichi a comprendere perché dobbiamo chiedergli così tante parole in prestito.
Si dice che usare l’inglese “faccia figo” o dia più serietà al messaggio che vogliamo veicolare, più lustro all’oggetto che introduciamo nella realtà. Ma io, che in inglese ci vivo, vi garantisco che non c’è nulla di figo o prestigioso nel dire call invece di (video)chiamata. Soprattutto, non ce n’è nessun bisogno.
De Mauro e Gheno mi hanno liberato dalla paura politica di svelare il mio desiderio di un italiano meno contaminato dall’inglese. Ne approfitto per scriverne, allora, ragionando su come possiamo moderare l’uso dell’inglese in italiano senza cadere nella trappola del fascismo.
Se un limite all’(ab)uso dell’inglese nella lingua italiana c’era, nella mia testa è stato superato con smart working.
A marzo 2020, mentre qui negli Stati Uniti ci mandavano a lavorare da casa (work from home, anche conosciuto con l’acronimo WFH) o da remoto (sostantivo remote work, verbo work remotely), in Italia si attingeva candidamente dal vocabolario inglese per esprimere il medesimo concetto… con l’espressione sbagliata: smart working, che non è propriamente il lavoro da casa che ci è stato chiesto di fare durante la pandemia, ma lavoro agile, che tra le altre cose può configurarsi da remoto/da casa.
Al netto delle sfumature semantiche, tuttavia, l’entrata di smart working nel nostro lessico non è nulla di strano o contro natura. Le lingue non sono entità immobili imposte dall’alto di un dizionario, ma vengono plasmate dall’utilizzo che ne fanno i parlanti stessi, in un processo di continua evoluzione che parte dal basso.
I prestiti — parole o espressioni che importiamo da altre lingue integralmente o minimamente adattate — fanno parte di questo processo. In particolare, le lingue sono abituate a prendere in prestito termini stranieri per colmare lacune lessicali, specialmente all’interno di domini in cui lə parlanti di una certa lingua hanno introdotto progresso, innovazione, eccellenza. È così che pasta e pizza e soprano e contralto sono rimaste tali e quali in inglese, e internet, online e computer tali e quali in italiano.
Il problema è che sempre di più l’inglese viene utilizzato per esprimere significati che l’italiano è già perfettamente in grado di comunicare autonomamente.
Le aziende fanno call e adottano packaging sostenibile. Trenitalia svela la promo Frecciayoung e l’area del treno dedicata alla Family. Il governo indice l’Election Day. L’Università di Bologna apre il chapter per riunire le persone laureate presso la sede di Forlì. Le pagine internet raccolgono views. Le banche offrono home banking e cash back.
Vi sembra che queste parole, espressioni o concetti non si possano esprimere in maniera sciolta e naturale anche in italiano, senza contorcersi in perifrasi né “suonare male”? Delle due, è l’inglese che suona male in un costrutto sintattico altrimenti italiano, soprattutto se non lo sappiamo pronunciare.2 Guardate qui:
Videochiamata. Imballaggio sostenibile. Promo Frecciagiovani e Area Famiglia. Giorno delle elezioni. Il capitolo di Forlì. Visualizzazioni di una pagina.
Banca online, pur usando un prestito (avvenuto proprio per colmare una lacuna lessicale che invece non esiste per “banca”), è meglio di home banking, e dimostra che per rimanere nei confini ragionevoli dell’italiano non è necessario arrampicarsi sugli specchi inventando la bevanda arlecchino che Mussolini preferiva al cocktail.
Forse l’unico che richiede contorsionismo è cash back: allora teniamolo così, la pronuncia è facile e snella e il significato che esprime è effettivamente nato in inglese e importato da paesi anglofoni. Visto quanto si può essere flessibili anche auspicando meno anglicismi?
Alla base di questa flessibilità c’è l’aspetto che di una lingua è costitutivo: la capacità di produrre significato per raccontare l’esperienza umana, non solo descrivendola per quello che è o è stata, ma anche riflettendo quello che diventerà. L’italiano esiste perché, tramite le parole e la grammatica che le tiene insieme, è capace di produrre continuamente nuovo significato con l’evolversi della nostra esperienza.
E cosa significa produrre significato tramite una lingua, se non usare le parole come strumento di innovazione, progresso e crescita socio-culturale?
È qui che secondo me si nasconde la chiave di volta per una tutela dell’italiano dai prestiti indiscriminati che sia slegata dalle logiche del conservatorismo: non si tratta di conservare la purezza della lingua (che non esiste), ma di riscoprire la sua capacità di innovare tramite le parole e così contribuire al progresso della società.
Produrre nuovo significato in italiano per innovare e progredire in italiano: non perché Giorgia Meloni ci intima di sederci a tavolino a sciacquare modem o router in Arno (modulatore di dati e collegarete?) altrimenti scatta la sanzione, ma come modalità per crescere insieme, come stiamo facendo sperimentando forme di linguaggio inclusivo.
Multare chi dice Election Day è fascista. Auspicare che non venga delegato a un’altra lingua il compito di raccontare la nostra esperienza invece no, non è fascista: è un atto di democrazia, perché la lingua è potere, e l’italiano è lo strumento che ci è dato per esercitarlo.
La stessa cosa non è avvenuta con il francese: les immortel·le·s dell’Académie non si fanno remore a bloccare l’ingresso di prestiti e coniare neologismi in lieu, forse perché in fondo la Francia non ha coniato un Benito Mussolini a cui piaceva fare lo stesso.
Un esempio è networking, che in italiano sento pronunciare con l’accento sulla o quando in inglese va sulla e: nètworking, non netwòrking.
Un’altro effetto collaterale degli inglesismi superflui sono gli italiani che li usano quando parlano inglese, e si stupiscono che gli anglofoni non li comprendano. Con l’espressione smartworking mi è capitato tante volte di assistere a scene imbarazzanti tra colleghi italiani e altri colleghi europei o americani.