L'irresponsabilità impunita di Filippo con Naditza in Mare Fuori (seconda parte)
Continua (e termina) l'analisi di alcune narrazioni che ritengo problematiche nella relazione tra due protagonisti della popolare serie televisiva prodotta dalla Rai
La morale di questa favola è che le serie televisive italiane come Mare Fuori […] continuano ancora a passare messaggi di assoluta normalizzazione, completa indifferenza, a tratti addirittura esaltazione di comportamenti maschili che fanno parte della cultura dello stupro.
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Passiamo quindi alla seconda parte di un’analisi delle narrazioni maschili problematiche che ho osservato nella relazione tra Filippo e Naditza nella celebre serie televisiva Mare Fuori. La serie è giunta alla quarta stagione e vanta share da record (secondo stime Rai, il 45% di spettatori ha meno di 25 anni), ma se siete tra i pochi italiani che non ancora non l’hanno guardata e hanno intenzione di farlo, vi ricordo che questa riflessione contiene spoiler, soprattutto sulla seconda stagione!!!!! Poi non dite che non vi ho avvisato.
Nella prima parte, che trovate qui:
abbiamo parlato della mancanza di rispetto e di responsabilità che Filippo, rampollo della Milano bene, mostra nella relazione d’amore con Naditza, giovane rom napoletana, abbandonando il piano di trasferirsi nell’Istituto Penale Minorile di Milano insieme a lei per rimanere vicino all’amico Carmine dopo che ha perso la moglie in un efferato regolamento di conti, senza però parlarne prima con Naditza.
Badate bene che la mancanza di rispetto e responsabilità non è nella scelta di rimanere con Carmine, gesto nobile di profonda amicizia. La problematicità va ricercata, da un lato, nell’omissione di qualsiasi tipo di comunicazione con Naditza su questa scelta; dall’altro, nell’atteggiamento di manipolazione psicologica con cui Filippo attribuisce alla disposizione emotiva di Naditza le ragioni dell’andamento negativo della relazione, incurante del proprio ruolo e coadiuvato da pressoché chiunque attorno alla coppia.
Non solo: se la problematicità si limitasse a certi sviluppi della trama, ma la maniera in cui sono raccontati implicasse chiaramente che i comportamenti di Filippo si rifanno a modelli di mascolinità tossica, non ci sarebbe critica alcuna da sollevare.
Il problema è appunto che la narrazione stessa di questi sviluppi della trama corrobora ed esalta gli atteggiamenti tossici di Filippo, invece di decostruirli. Agli occhi dei telespettatori, Filippo è il classico pover’uomo innamorato rifiutato dalla donna tanto bella quanto stronza, archetipo sessista tanto caro a cinema e letteratura. Tutte le operazioni di coercizione psicologica messe in atto dal pover’uomo per riportare la bella stronza tra le sue braccia sono romanticizzate come manifestazioni d’amore.
Vediamo nel dettaglio.
Dopo una serie di vicissitudini in seguito al mancato trasferimento di Filippo a Milano, Naditza rientra all’IPM di Napoli. È, giustamente, risentita con Filippo per essersi fatto di fumo, e non ha nessuna intenzione di avere a che fare con lui. Ma è presto chiaro che nell’ambiente che la circonda non c’è spazio per questo legittimo stato d’animo.
La direttrice dell’IPM, Paola Vinci, convoca entrambi nel suo ufficio perché possano parlarsi. Per Naditza il momento è prematuro:
Nun tengo genio de parlà, dottorè. Soprattutto cu nu bugiardo come isso.
Direi che è comprensibile, no? No: il modo in cui questa scena è narrata, la giustapposizione tra il viso contrito di Filippo e i denti digrignati di Naditza, la replica impaziente di Paola — “Tu mi fai la cortesia di parlare con Filippo”, dice la direttrice alla ragazza — non contempla l’ipotesi che la resistenza di Naditza sia in realtà manifestazione di una grande complessità di sentimenti ed emozioni. Una complessità valida, giustificata, che come tale va accolta e ascoltata. L’enfasi di questa scena è invece sulla cocciutaggine e la presunta aggressività di Naditza. La profondità del suo stato d’animo viene diluita in un capriccio superficiale.
Rimasti soli nella stanza, senza una parola di scuse Filippo la implora di perdonarlo. “Lo so che sei arrabbiata”, dice con la coda tra le gambe e una staticità disarmante: di fronte alle emozioni di Naditza, Filippo è fermo immobile. Non c’è movimento alcuno verso il disagio della ragazza di cui lui è personalmente responsabile. Impalato si limita a constatare il disagio — sei arrabbiata — ammettendo di esserne a conoscenza — lo so — senza che la consapevolezza si trasformi in azione. Come sempre, l’onere dell’azione e della decisione spetta a Naditza.
Lei non è pronta a perdonarlo. Gli rammenta che tra di loro esiste un profondo divario socio-economico-culturale che aggiunge un ulteriore strato di difficoltà a un rapporto già logorato da mancanze e promesse non mantenute:
Filippo: Senti, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Ora cerco di sistemare tutto quanto.
Naditza: Ma che vuò sistemà, Filì? Tra me e te è una relazione impossibile.
Da questo scambio emerge fortissima la tensione tra il privilegio di Filippo e lo svantaggio comparato di Naditza. Ora cerco di sistemare tutto quanto, dice lui, con l’idealismo proprio di chi è abituato ad avere tutto, subito, sempre. È impossibile, dice lei, che invece conosce molto più intimamente il concetto di limite, e sa apprezzarlo. E vorrebbe che lo potesse apprezzare anche Filippo, nel senso di riconoscerne l’esistenza e prenderla seriamente.
Agire da supereroi onnipotenti non è realistico: su questo aspetto così fondamentale della relazione, che torna e ritorna nei discorsi di Naditza, è necessario costruire un canale di comunicazione sano. Bisogna parlarne.
Ma Filippo non vuole farsi carico di questo peso. Al contrario, nuovamente lo trasferisce altrove, questa volta sulle spalle del padre di Naditza. La colpa è sua e solo sua, ostinato com’è a voler sposare la figlia all’interno della comunità rom1:
Filippo: Ma lo capisci che non è colpa mia o colpa tua, è colpa di tuo padre!
Naditza: Ma chi se ne fotte di chi è la colpa Filì! Io cu te nun ci voglio stà. Tu me faje stà male. E tu questa cosa non la capisci!
Eccola qui, la gravità più eccezionale di tutte: Naditza dice di no e Filippo non lo accetta. Io con te non ci voglio stare. Tu mi fai stare male. Sfido chiunque a parlare con maggiore chiarezza. Eppure non c’è traccia, in Filippo, della volontà di assumersi la responsabilità della sofferenza di Naditza e di rispettare il suo no. Non c’è in lui un briciolo di movimento verso quel cambiamento interiore, necessario per portare avanti il suo rapporto d’amore, che invece è tanto esaltato nell’amicizia con Carmine (come discusso nella prima parte).
E sapete perché?
Innanzitutto, perché è evidente che Filippo non pensa di dover essere lui a cambiare: perché mai lui e non lei, quando lui è bello, ricco, avviato verso una brillante carriera da pianista, residente in un appartamento vista Madonnina sul Duomo, e lei invece è la povera zingara figlia di un pazzo scellerato?
Ma soprattutto, perché Filippo è convinto che il no di Naditza non significhi veramente no. E questo, signorə, è il Sintomo Numero Uno di quella piaga della nostra cultura conosciuta con il nome di mascolinità tossica. Rientra a pieno titolo nel novero dei comportamenti che alimentano la cultura dello stupro.
Quel che è peggio è che non è solo Filippo a credere che il no di Naditza non significhi no. Lo pensa chiunque graviti intorno alla coppia.
“Pensaci bene, Nad. Uno come a Chiattillo2 non lo trovi più” le dice Silvia, compagna di cella di Naditza. Il valore di un uomo bianco, ricco, settentrionale è superiore a quello di una donna rom, povera, meridionale. Non può esserci squilibrio di potere più vertiginoso di questo. Naditza deve voler stare con Filippo. Come può non voler stare con Filippo, unica via d’uscita da una vita da zingara costretta a rubare portafogli in metropolitana e scopare con chi tuo padre ha scelto per te?
Visto anche questo squilibrio di potere, credere che “no” in realtà significhi “sì” — rifiutare l’idea che la persona desiderata abbia negato il consenso a una relazione — è una forma ancora più grave di coercizione psicologica. Non importa che Filippo e Naditza fossero vestiti in piedi nell’ufficio della direttrice di un carcere minorile, e non nudi supini a letto nel momento precedente il rapporto sessuale. Io cu te nun ci voglio stà è una dichiarazione netta di negazione del consenso in qualsiasi contesto essa venga pronunciata, e come tale va interpretata e rispettata.
Invece guardate come va avanti Filippo. Quando dopo una serie di ulteriori tira e molla Naditza decide di assecondare la volontà della famiglia e sposare un membro della comunità rom, Filippo sconvolto corre a parlarle:
Filippo: Non lo puoi fare. […] Senza di te non me ne frega niente di niente. Dimmi che è così anche per te.
Naditza: Scetate3 Filì, è tardi.
(Naditza si allontana)
Filippo: Sei proprio stupida, Nad.
Mi immagino gli autori della sceneggiatura, tutti belli soddisfatti della scrittura di questo dialogo nella convinzione che utilizzare un verbo forte al modo imperativo e piazzarci pure l’epiteto minimamente offensivo sortisca l’effetto grandioso di eroicizzare il nostro masculo innamorato, che mai e poi mai si farebbe scappare la sua principessa, costi quel che costi, laddove costi quel che costi non è sopraffazione ma virtù.
Mi dispiace: non è così. Riproviamo:
Dimmi che è così anche per te: tu, donna, non hai scelta. Ti divincoli dall’obbligo nei miei confronti e decidi lo stesso di compiere una scelta? Allora tu, donna, sei stupida, perché lo so io meglio di te, che sono io quello che vuoi veramente.
Questa è la lettura corretta del dialogo di cui sopra e questa, ragazzə miə, è violenza verbale. È cultura dello stupro.
Nun me fott’ nient’ che alla fine Naditza decida di scappare con Filippo dopo che lui, evaso apposta dal carcere, interrompe le nozze coatte a cerimonia iniziata (accettare la sconfitta, rassegnarsi, farsi da parte sono gesti di umiltà poco consoni all’immagine del maschio forte).
Nun me fott’ nient’ che Naditza il bel Filippo lo avesse, in fondo, sempre amato: il significato dei suoi precedenti “no” rimane immutato. “No” non diventa magicamente “sì” solo perché forse, sotto sotto, una donna è in realtà innamorata dell’uomo al quale sta negando il consenso. Nun c’azzecca proprio nient’.
Ci azzecca solo l’espressione di volontà di quella donna hic et nunc.
Come dicevamo innanzi, tutti questi snodi della trama non sarebbero così problematici, se Mare Fuori ce li raccontasse per quello che sono: problematici. I comportamenti coercitivi del personaggio fittizio di Filippo sarebbero un po’ meno pericolosi nella vita vera se la serie li narrasse in maniera appropriatamente critica, decostruendoli, comunicando in maniera chiara ai telespettatori — attraverso scelte precise su dialoghi, inquadrature, recitazione — che la mascolinità tossica è un fenomeno reale che non può essere condonato.
Non è così: l’ostinazione di Filippo a riprendersi Naditza è narrata come una forma d’amore completamente sana, giusta, nobile. E lei è la solita donna stronza che non vuole capire. Ci ha preso un po’ la mano, poverino, ma era innamorato…!
Quante donne sono morte in femminicidio perché l’ambiente che le circonda e la narrazione viziata della loro storia d’amore spacciavano l’insistenza dello spasimante come un “prenderci la mano” da “innamorato perso”, senza preoccupazione alcuna per la coercizione che spesso e volentieri accompagna l’insistenza?
È questo il punto. La morale di questa favola è che le serie televisive italiane come Mare Fuori — al momento la più popolare di tutte, guardata da milioni di telespettatori il 45% dei quali hanno meno di 25 anni e sono gli italiani e le italiane del futuro — continuano ancora a passare messaggi di assoluta normalizzazione, completa indifferenza, a tratti addirittura esaltazione di comportamenti maschili che fanno parte della cultura dello stupro.
È una irresponsabilità impunita. C’è chi si diverte a guardarla, chi diventa ricco e famoso scrivendola, chi la emula. E poi ci sono le donne che di irresponsabilità impunita ci muoiono.
Importante notare che se lo scenario del matrimonio combinato è vissuto da Filippo e presentato a noi come un film di fantascienza, è perché ci insistiamo a voler comprendere e giudicare il mondo con il filtro della mentalità occidentale europea/nordamericana. In generale da noi il concetto di matrimonio combinato non esiste. Ma questo non lo rende fantascienza, e non vuol dire che debba essere liquidato come intrinsecamente sbagliato. Le circostanze in cui un matrimonio viene combinato possono facilmente contravvenire a principi fondamentali, come ad esempio la libertà della donna; ma dobbiamo astenerci da giudizi tout court solo perché nella nostra cultura questa pratica non esiste.
Il soprannome di cella di Filippo. In napoletano, “chiattillo” significa figlio di papà.
Svegliati, in napoletano. Tra gli effetti che la visione di Mare Fuori sta avendo sulla mia vita c’è indubbiamente l’interesse per la lingua napoletana. Mi sono letta con grande piacere la pagina di Wikipedia sulla grammatica del napoletano e con grande soddisfazione ho provato a ricostruire in questo pezzo (sbagliando, sicuramente) le declinazioni e coniugazioni e la corretta grafia delle battute in dialetto di Naditza. Queste le cose che piacciono a me.