Intervallo: scrivere per esseri umani
Mini pausa da libertà delle donne, parità di genere e giustizia sociale per parlare di alcuni particolari aspetti di difficoltà nel mestiere della scrittura
Offrire le nostre parole al mondo significa accettare che non occupino la stessa posizione centrale che hanno occupato in noi, e che non lo cambino nella stessa maniera in cui hanno cambiato noi
Ci sono giorni in cui osservo il mio compagno digitare sullo schermo del computer sequenze di caratteri incomprensibili alla maggior parte degli esseri umani, con la certezza che queste sequenze di caratteri incomprensibili verranno lette da una macchina e gli garantiranno lavoro, lauto stipendio e stabilità per tutta la vita.
Di solito sono gli stessi giorni in cui, per un motivo o per l’altro, mi scontro con la volubilità e l'insicurezza di un mestiere che invece ruota tutto intorno alla costruzione di senso, e intelligibilità per gli esseri umani, di un insieme di parole.
Se volete toccare con mano i poli opposti della scala di impiegabilità di un individuo nel mercato del lavoro (al netto di talento, capacità ed esperienza), venite a trovare me e il mio compagno nella stanza del nostro appartamento dove lavoriamo: sulla scrivania di destra, i suoi codici sempre letti da un computer e, per questo, estremamente redditizi; su quella di sinistra, le mie parole poco lette e poco redditizie.
Del resto, i computer non hanno libero arbitrio: la scrittura stessa di un codice informatico implica che un computer lo leggerà. L’obbligo di lettura è stabilito proprio da una di quelle sequenze di caratteri incomprensibili.
Unə scrittrice o scrittore, invece, non dispone di comandi per obbligare altri esseri umani a leggere quello che ha scritto.
Per fortuna.
Nell’ultima edizione della sua newsletter,
coglie brillantemente la sensazione che unə scrittrice o scrittore prova quando il frutto del proprio lavoro fa il debutto in società.Dice Giulia parlando del suo ultimo libro, il romanzo Cose mai successe (di cui una copia mi attende a casa in Italia):
Due anni, in cui quel romanzo ha ingombrato la mia vita intellettiva e mi è sembrato l’unica cosa che contava. Adesso è fuori, e la cosa che nessuno di noi riesce davvero a capire è come mai quella cosa così grande e importante non sia il centro del mondo anche per tutto il resto del genere umano.
[…]
La scrittura è un meccanismo emotivo strano: ci devi stare dentro in maniera assoluta, e quando hai finito è sempre frustrante confrontarsi con il fatto che nello stesso giorno in cui esci tu, altre persone arrivano in libreria con una cosa nuova e pensano, allo stesso modo: perché il mondo non si arresta con un drammatico tema di archi e fiati?1
Provo questa sensazione ogni volta che rendo pubblico qualcosa che ho scritto.
Scrivere è un’esperienza totalizzante. L’immersione dentro le parole è completa: chi scrive è tutt’uno con il testo, il testo è tutt’uno con chi scrive. Giulia lo chiama “il centro del tuo mondo”; io faccio un passo ulteriore e dico che il testo diventa parte di te. Quando dalla tua costola al centro del tuo mondo il tuo scritto si sposta nel mondo degli altri, fuori sia da te che da loro, il senso di smarrimento è inevitabile.
Il passaggio di uno scritto dal mio mondo a quello degli altri è un atto elettrizzante. Nel mio caso, trattandosi almeno per ora di testi più o meno brevi volti alla pubblicazione online (non di libri, insomma), il passaggio consiste nell’appoggiare il dito indice su un mouse o il dito pollice uno schermo, poi premere un bottone il cui nome attinge dalla gamma dei sinonimi di “pubblicare”.
La semplicità del gesto smentisce il subbuglio interiore. E presagisce ciò che accade subito dopo (almeno a me, in questa fase della mia vita di scrittrice).
Poco o niente.
“Quella cosa così grande e importante”, per riprendere Giulia, non lo è per gli altri, almeno non allo stesso modo. Il centro del tuo mondo tende a rimanere ai margini del mondo degli altri (il che non significa che gli altri non lo apprezzino; semplicemente, non è cosa loro nella maniera in cui è stato cosa tua).
Il disincanto somiglia a qualcosa che si sgonfia e poi si appiana: Wow, aspetta un attimo. Mi è piaciuto così tanto scrivere questa cosa, ci ho tenuto e mi ha preso in maniera così profonda, che credevo — mi illudevo? — che nel momento in cui l’avrei presentata al pubblico, sarebbe successo qualcosa di particolare. Invece no. Come in realtà, forse, avrebbe dovuto essere ovvio.
Che io non sia Giulia Blasi, e le mie parole non possano ambire al livello di diffusione delle sue, non c’entra assolutamente niente — come ampiamente dimostrato, appunto, dal fatto che questa esperienza appartiene anche a Giulia Blasi.
Non è neanche una questione di egocentrismo, vanità o pretesa di attenzione. Chi scrive lo fa sicuramente perché scrivere le/gli piace e ne trae beneficio per se stessə, ma per se stessə non significa fine a se stesso.
L’occasione della scrittura è qualcosa dentro o fuori da noi che ci provoca a tal punto che le parole per descriverla non possono rimanere dentro di noi, perché quella cosa ha a che fare anche con gli altri, e anche agli altri può portare beneficio.
Ho apprezzato particolarmente le parole di Giulia perché normalizzano una sensazione scomoda e a tratti imbarazzante — come potevo pensare che quello che ho scritto smuovesse il mondo degli altri nella stessa misura in cui ha smosso il mio? Vergognati di averci pensato, Enrica! — come del tutto legittima e, soprattutto, condivisa da chiunque renda pubblico ciò che scrive.
Offrire le nostre parole al mondo significa accettare che non occupino la stessa posizione centrale che hanno occupato in noi, e che non lo cambino nella stessa maniera in cui hanno cambiato noi.
Se scrivessimo per essere lettə da computer e non ricevessimo riscontro, vorrebbe dire che nella nostra sequenza di caratteri incomprensibili si nasconde un bug che causa un malfunzionamento.
Ma noi scriviamo alla ricerca di senso da condividere con altri essere umani: il riscontro non è dovuto e la sua assenza non è un malfunzionamento.
Il mio ragazzo non cerca lavoro: il lavoro trova lui. La sua casella di posta di LinkedIn, come quella di tutti gli sviluppatori di software, strabocca di messaggi di aziende interessate ad assumerlo. Nel 99% dei casi, i messaggi vengono ignorati.
Nel mestiere della scrittura, a meno che non si goda di fama, la realtà è molto diversa. Da quando ho deciso di dedicarmi alla scrittura a tempo quasi pieno, salvo rare occasioni, sono io che devo farmi avanti. Anche in questo caso interviene il libero arbitrio degli esseri umani, che spesso non leggono e/o non rispondono.
È anche per questo che sto costruendo tanti progetti da sola, senza dipendere troppo da forze esterne difficili da influenzare.
Ed è anche per questo che ogni tanto capita uno di quei giorni in cui sbircio i caratteri incomprensibili sullo schermo del mio compagno chiedendomi perché i caratteri incomprensibili sì, e le parole invece no. Per una persona che ama le parole e se ne nutre da quando un libro del Battello a Vapore costava cinquemila lire, è difficile fare i conti con la realtà di quanto sia difficile scrivere per la vita.
La strada è in salita, lunga, ardua. Ci vuole pazienza. È necessario allenare continuamente un muscolo tanto importante quanto doloroso da contrarre: il muscolo che ti aiuta a trovare fiducia dentro di te invece che al di fuori, nella conferma e nell’approvazione degli altri.
Gli altri… quelli che continuano a mandarmi annunci di lavoro nell’industria tech — nonostante abbia ripetuto loro diverse volte in maniera chiara che al momento, dopo il licenziamento da Google, non voglio continuare lo stesso tipo di esperienza aziendale, ma dedicarmi a trovare un modo per lavorare scrivendo — perché evidentemente pensano che intraprendere questo cammino non sia “abbastanza”.
…quelli che, anche se non lo dicono, non credono che possa fare sul serio, che questo cammino sia possibile e sotto sotto, un pochino, mi credono matta… perché voglio fare quello per cui mi sento chiamata e ho pure studiato! Volete che vi racconti degli uomini bianchi e ricchi con cui ho lavorato per un terzo dei vent’anni e un terzo dei trenta? Nessuno li mette mai in dubbio, anche quando sarebbe necessario.
…quelli che non sono computer che reagiscono al comando di una sequenza di caratteri incomprensibili, ma dispongono del libero arbitrio per decidere di non leggere.
Eppure, nonostante l’insicurezza, il rischio, la difficoltà a intravedere un orizzonte di stabilità, non riesco a pensare di non essere sulla strada giusta.
Infilare parole l’una dietro l’altra dando loro un senso da condividere con altri esseri umani è ciò che più mi corrisponde. È alle parole che voglio dedicare il mio lavoro e la mia vita.
Se mi sembra di poter continuare a ripeterlo con forza è perché lo smarrimento, il disincanto, il poco e niente che mi ritorna quando lancio un testo nel mondo non sono ancora riusciti a scalfire questa sensazione.
Per fortuna.
Importante nota finale
Spero che sia chiaro che l’analogia tra la scrittura per umani e la programmazione per computer è stata forzata al servizio di un’argomentazione. Provo rispetto assoluto per il mestiere dello sviluppatore di software. È un lavoro difficilissimo di creazione di forme di progresso che eludono i confini dell’immaginazione. I codici informatici che appaiono incomprensibili a chi non li conosce sono anch’essi frutto di una meticolosa ricerca di senso, ed esprimono un significato ben preciso. Al giorno d’oggi, sono queste sequenze di caratteri per computer che ci permettono di scrivere libri per umani. Il mio ragazzo non è sempre felice del suo lavoro, anzi, la frustrazione lo colpisce di frequente. Ripeto: l’analogia è stata costruita al servizio di un’argomentazione, ma non è un giudizio di qualità o merito e non nega le difficoltà di questo mestiere, né il suo contributo al destino dell’umanità.
Giulia Blasi, Ho scritto una cazzata su internet, in Servizio a domicilio, 9 aprile 2024 (grassetto nell’originale)