Ammettere il patriarcato che c'è in te non ti toglie nulla
Vi propongo un'analogia con il mio percorso di presa di coscienza del razzismo che c'è in me, come persona bianca che vive negli Stati Uniti
L’orario è quello di cena (almeno per gli americani), ma a una latitudine come quella dell’Alaska, in estate, la luce è ancora quella del pieno giorno. La cara amica con cui sono in viaggio e io entriamo in un ristorante che si fa chiamare pizzeria.
I miei occhi, italiani, cadono subito sul menù, scritto a mano con gessetti colorati su una grande lavagna che pende dal soffitto. I prezzi delle pizze sono allucinanti, perché tutto in Alaska arriva per via aerea. Mi passa subito la voglia di mangiare lì e pagare a peso d’oro un pasto che sicuramente ha poco a che fare con la tradizione da cui proviene, la mia, che conservo gelosamente.
Gli occhi della mia amica, americani ma nati nel sud-est asiatico, perciò aperti su un viso la cui pelle è di colore, osservano invece gli avventori seduti ai tavoli.
“Let’s go, please, everyone is white here. I don’t feel comfortable” mi sussurra la mia amica. Andiamocene, ti prego, sono tutti bianchi, non mi sento a mio agio.
Questa reazione mi è subito apparsa come esagerata. E che sarà mai, ho pensato. Andarsene a causa di prezzi allucinanti per mangiare una pizza di dubbia qualità mi sembra ragionevole — ma a causa del colore della pelle dei commensali, addirittura? Perché ti dà così fastidio? Questi bianchi sono qui per mangiare, non per farti sentire fuori luogo o farti del male. Dentro di me, ho sentito farsi avanti anche un pochino di irritazione. Percepivo la reazione della mia amica quasi come un attacco, seppur velato. Anche io sono bianca, e quindi? Cosa stai cercando di dirmi? Non tutti i bianchi sono razzisti. Ben cosciente della delicatezza del discorso sulla razza negli Stati Uniti, però, ho tenuto questi pensieri per me, e siamo andate a mangiare da un’altra parte.
Mi ci sono voluti tre anni per capire. Nell’estate del 2020, come tante altre persone bianche colpite, confuse, chiamate in causa dall’omicidio di George Floyd, uomo nero strangolato dal ginocchio di Derek Chauvin, poliziotto bianco, ho iniziato a informarmi e a educarmi. E ho capito non solo perché la mia amica ha reagito così e perché la sua reazione è del tutto valida; ma anche che il mio stesso qualificare — liquidare! — questa reazione come esagerata è sintomo della mia incoscienza, inconsapevolezza e ignoranza di cosa voglia dire muoversi per il mondo con il peso che la società attribuisce a una pelle non bianca.
Io posso permettermi di entrare in qualsiasi luogo, ovunque nel mondo, senza preoccuparmi del colore della mia pelle, perché il colore della mia pelle non mi renderà mai oggetto di discriminazione, violazioni, violenze. Chi invece non ha il privilegio — del tutto arbitrario, frutto di un brutto capriccio della storia — di essere nato con la pelle bianca si muove per il mondo trascinando con sé anni e anni, secoli e secoli di storia in cui esseri umani come lui/lei sono stati vittima di innumerevoli, indicibili, ingiustificabili angherie. Questa è la realtà in cui la mia amica vive tutti i giorni. È la sua quotidianità come persona di colore, che non può permettersi di non pensarsi come persona di colore — come facciamo noi bianchi1 — perché questa identità la colloca continuamente in una posizione di inferiorità, rappresenta un rischio, la espone al pericolo. Questa è l’ordinarietà di essere una persona di colore in un paese a dominazione bianca (gli Stati Uniti, certo, ma anche l’Italia).
Non importa assolutamente niente se, quella sera d’estate, gli avventori del ristorante in Alaska non avrebbero compiuto nessun gesto razzista nei confronti dell’unica cliente di colore. Non importa assolutamente niente se nella loro vita non si sono mai resi direttamente colpevoli di parole o atti esplicitamente razzisti o violenti. Importa solo che la società abbia sancito (con violenza) il dominio dei bianchi sui neri e che questo la renda razzista — e ostile ai non bianchi — così com’è, in assenza di un’esplicita sovversione di questo sistema.
Perché vi ho raccontato questa storia? Cosa c’entra con il femminicidio di Giulia Cecchettin? C’entra eccome.
C’entra perché l’esame di coscienza che ho dovuto fare io, come persona bianca, per prendere coscienza e responsabilità del razzismo che c’è in me, che mi beneficia e che, se non faccio nulla per fermarlo, continuerà a passare anche dalle mie mani, è lo stesso tipo di riflessione che come femministə stiamo implorando gli italiani di fare all’indomani del femminicidio di Giulia — italiani uomini, soprattutto, ma anche donne, le tante donne che sorreggono il patriarcato.
La società italiana è un luogo di #tuttimaschi così come il ristorante in Alaska lo era di #tuttibianchi. Con cui non stiamo dicendo che tutti gli italiani sono maschi, ovviamente, ma che sono i maschi a dominare la società italiana, come sancito dal sistema su cui la società si regge e che chiamiamo patriarcato (e, in ogni caso, sono #tuttimaschi quelli che uccidono le donne per essere donne).
Agli italiani perciò chiediamo:
Di aprire gli occhi sul fatto che il dominio degli uomini sulle donne, altrimenti detto patriarcato, è un fatto ordinario dell’esperienza italiana (ne ho parlato anche qui). L’uomo è superiore alla donna in ogni fibra della nostra società — dalla famiglia, alla scuola, al lavoro, alle strutture economiche e politiche, alle fonti di informazione — e non si tratta di una realtà ineluttabile (anzi, siamo qui per rivoltarla come un calzino), ma di un’azione sistematica di oppressione da parte degli uomini nei confronti delle donne.
Di capire che “azione sistematica di oppressione” non significa che gli uomini italiani si sono riuniti a tavolino, uno per uno, a pianificare come subordinare le donne. Significa che secoli e secoli di patriarcato, inasprito dalla cultura maschio-centrica del cattolicesimo, hanno reso comuni, banali, semplici “scherzi” gesti quotidiani di sottomissione della donna: battute da spogliatoio sulla nostra sessualità, ingiurie sul nostro aspetto fisico, modi di dire sulla nostra scarsa intelligenza, aspettative opprimenti sul nostro ruolo nella società. Hanno reso normale calpestarci e parlarci sopra, perché all’uomo spetta sempre più spazio e più tempo per affermare la propria autorevolezza. La legittimazione di queste angherie da parte del sistema in cui viviamo è un atto di oppressione.
Di comprendere, di conseguenza, cosa significa crescere femmina ed essere donna in Italia all’interno di questo sistema di oppressione, che ci fa sentire, ogni giorno, come inferiori.
Di prendersi la responsabilità di tutto questo, ovvero: avere la ragionevolezza e l’umiltà di dire “anche io sono un uomo italiano, quindi anche io ho beneficiato della cultura di un paese che ha sempre visto quelli come me come superiori, non li ha mai ridicolizzati e sminuiti, non li ha mai sottomessi per puro e semplice capriccio culturale e storico. La cultura italiana ci ha sempre onorato, riverito, rispettato. Per fortuna io, personalmente, non mi sono mai macchiato della colpa di uno stupro o di un femminicidio. Ma in quanto uomo, spetta anche a me, nei miei gesti e nelle mie parole quotidiane, contribuire a una cultura di rispetto della donna e della sua dignità. Magari, la prossima volta, quella battuta me la risparmio. Magari, la prossima volta, sto più attento a non parlare sopra a quella donna, le lascio più spazio. Magari la smetto di dare per scontato che i miei figli prenderanno il mio cognome”.2
Questa è la versione maschio-patriarcale della riflessione che è toccato fare a me, persona bianca, di fronte all’idea che dovessi anche io rendere conto delle strutture di potere che hanno sancito il dominio del colore della mia pelle, permettendo che calpestasse, opprimesse e uccidesse.
L’analogia mi aiuta a illustrare che, innanzitutto, nessun femministə sta facendo prediche credendosi superiore moralmente: tutti noi, a seconda della nostra identità, partecipiamo a una qualche struttura di potere. Non sono perfetta, io che vengo a chiedervi di farvi un esame di coscienza. Sto facendo anche io il mio, quando si tratta di decostruire meccanismi di oppressione che fanno parte della mia identità. Io, che non ho mai fatto nulla di male alle persone di colore! Io, che rispetto i non bianchi, anzi ho tanti amici non bianchi qui negli Stati Uniti! Io, figlia di un medico che fa volontariato con gli immigrati dall’Africa! Io, che sono buona cara e giusta nei confronti delle minoranze etniche! Io, che non ho mai ucciso nessun nero, io, per carità! Non sono razzista, io, non vi permettete neanche di pensarlo!
Sono le stesse lamentele che si stanno alzando in questi giorni da parte di tanti uomini italiani, appoggiati nel loro risentimento da tante donne italiane: io, che non toccherei le femmine neanche con un fiore! Io, che ho una moglie e una figlia! Io, che ho tante amiche femmine! Io, che non stuprerei mai! Io, che non ho mai ucciso nessuno! Non sono sessista, non sono misogino, ma come vi permettete. Non tutti gli uomini sono sessisti e misogini.
La consapevolezza per me è scattata nel momento in cui si è chiarito nella mia testa un concetto fondamentale: che aver fatto o non fatto, detto o non detto non c’entra proprio nulla (avere parenti o amici men che meno). C’entra la superiorità che il mio vantaggio mi dà nella vita, una superiorità quotidiana, ordinaria, data per scontata, riconosciuta in ogni angolo del mondo. C’entra il fatto che questa superiorità, che io lo voglia o no, è interiorizzata dentro di me, perché tutti i messaggi che ho ricevuto dalla società l’hanno sempre ribadita. Infatti, se scaviamo sotto la superficie della mia presunta innocenza, quante volte ho sentito “battute” a sfondo razziale e non ho detto nulla? Peggio, magari ho pure riso? Peggio, magari la “battuta” è partita da me? Quante volte mi è venuto automatico rivolgermi con il tu a un immigrato di colore in Italia, anche se non lo conoscevo ed era più anziano di me, come se non meritasse la dignità, il beneficio e l’autorità di un lei di cortesia per il solo fatto di non essere un bianco italiano?
Io, donna bianca, beneficio del razzismo, ovvero delle strutture di potere che sanciscono la superiorità della razza bianca calpestando tutte le altre. Il razzismo fa male alle persone di colore — le uccide. E se io faccio parte delle strutture di potere che uccidono, devo prendermi la responsabilità di questo fatto. È mio compito, innanzitutto, prendere coscienza del razzismo che ho interiorizzato, anche se mi sembra di non averlo fatto apposta. Poi, è mio dovere portare avanti tutti i giorni, nei miei gesti e nelle mie parole quotidiane, un sistema di valori e principi fondamentali legati al rispetto e alla dignità delle persone non bianche. È mio compito e mio dovere anche se non sono (o non mi sento di essere) una persona cattiva. Anzi, prendermi le mie responsabilità e onorarle nel quotidiano fa di me una persona migliore. E non mi toglie assolutamente nulla — tanto più che parto da una posizione di vantaggio. Da quando ho preso consapevolezza della mia responsabilità nei confronti del razzismo, ho solo guadagnato tantissimo. Mi sono avvicinata a un sistema di valori che rispecchia l’identità che desidero per me stessa.
Completiamo l’analogia con il discorso sul patriarcato:
Tu, uomo italiano, benefici del patriarcato, ovvero delle strutture di potere che sanciscono la superiorità del sesso maschile calpestando il sesso femminile (se sei una donna e queste parole ti fanno ribrezzo, è probabile che anche tu stia condonando il patriarcato). Il patriarcato fa male alle donne — le uccide. E se tu fai parte delle strutture di potere che uccidono, devi prenderti la responsabilità di questo fatto. È tuo compito, innanzitutto, prendere coscienza del sessismo e della misoginia che hai interiorizzato, anche se ti sembra di non averlo fatto apposta. Poi, è tuo dovere portare avanti tutti i giorni, nei tuoi gesti e nelle tue parole quotidiane, un sistema di valori e principi fondamentali legati al rispetto e alla dignità delle donne. È tuo compito e tuo dovere anche se non sei (o non ti senti di essere) una persona cattiva. Anzi, prenderti le tue responsabilità fa di te una persona migliore. E non ti toglie assolutamente nulla — tanto più che parti da una posizione di vantaggio.
Ultima cosa: responsabilità è diverso da colpa. Ringrazio Lorenzo Gasparrini, filosofo e scrittore femminista che si occupa di formazione di genere per un pubblico maschile, per avermi aperto gli occhi su questa differenza di significato, che è molto più di una sfumatura. Dice Lorenzo in Non sono sessista, ma… (grassetto mio):
La colpa è di chi ammazza, di chi stupra. Per la stragrande maggioranza, uomini eterosessuali. E anche di questo numero preponderante ci si deve prendere la responsabilità, in quanto uomini eterosessuali, affinché diminuisca. La responsabilità non dei reati, non degli atti in sé, ma del fatto che siano commessi principalmente da comuni uomini eterosessuali.
[…]
È anche grazie a questa confusione tra colpa e responsabilità che tanti uomini reagiscono con sdegno al porre una questione maschile, reagiscono con rabbia all’attribuzione di una responsabilità di genere, reagiscono irridendo alla necessità del termine “femminicidio”, reagiscono con stizza alla descrizione di un sistema di valori e di poteri che ne determina le caratteristiche di uomini eterosessuali.3
Colpa è diverso da responsabilità. La colpa del femminicidio di Giulia Cecchettin è di Filippo Turetta. La responsabilità è della cultura patriarcale, maschilista e maschio-centrica del Bel Paese Italia, portata avanti principalmente da uomini eterosessuali con il sostegno di tantissime donne.
Tre anni dopo l’episodio della pizzeria in Alaska, quando ho capito, ho scritto alla mia amica per dirglielo. Ero titubante: avevo paura di offenderla, stizzirla o deluderla — un’amica strettissima da più di dieci anni — ammettendo che tre anni prima non avevo preso sul serio la sua reazione. Ma ho deciso di essere onesta. Mi sono presa questa responsabilità. La mia amica ne è stata felice, mi ha ringraziato, si è sentita “vista” (come si dice in inglese) e compresa nella sua esperienza quotidiana di persona che si muove nel mondo con le spalle cariche del peso di una pelle non bianca.
Come donne e come femministə, possiamo provare rabbia nei confronti del patriarcato — sfido chiunque a non provare rabbia, crescendo femmina in Italia — ma le nostre porte rimarranno sempre spalancate per quegli uomini e quelle donne che sceglieranno di venirci a dire che non è giusto che sia così.
Non solo noi bianchi siamo liberi di non pensare al colore della nostra pelle, ma ci facciamo anche belli di “non vedere il colore della pelle” degli altri. È un discorso che merita molto più di una nota a piè di pagina (o il post su Instagram che gli ho dedicato) ma l’idea è che la famosa frase “non esiste bianco o nero, esiste solo la persona” nega la realtà della discriminazione razziale dal punto di vista di chi può permettersi di non vedere il colore. Una persona non bianca il colore lo vede benissimo, perché ne subisce le conseguenze tutti i giorni. Una persona non bianca non può che ridere della rassicurazione che noi bianchi non vediamo il colore: significa che non ci accorgiamo neanche della discriminazione, della subordinazione, della violenza di cui i non bianchi sono vittime quotidiane.
Alle donne che sostengono il patriarcato, chiediamo di ragionare su come percepiscono la propria identità di donna in Italia, e come questo le fa sentire; di interrogarsi su cosa facciamo noi donne tutti i giorni per rafforzare il dominio degli uomini; di riflettere sul perché pensiamo che un sistema socio-culturale come il patriarcato possa beneficiare anche noi (spoiler: non lo fa).
Gasparrini L., Non sono sessista, ma… Il sessismo nel linguaggio contemporaneo, Edizioni Tlon, Roma 2019, pag. 47 della versione eBook