Una divisione equa del lavoro domestico non è questione di privilegio, ma di intenzionalità
Nelle famiglie italiane di solito è l'uomo a lavorare e/o percepire lo stipendio più alto: come navigare un contesto di questo tipo senza replicare le dinamiche tanto care al patriarcato?
Quando si tratta di allineare la relazione con il mio compagno ai valori della parità di genere — per cui la divisione di lavoro e spese è equa tra uomo e donna e non basata su ruoli prestabiliti dalle leggi del patriarcato — scherzo sempre che il mio paese di provenienza e il mio background professionale creano non pochi ostacoli sul percorso.
Lui è americano e io sono italiana, chi vuoi che cucini?
Lui è un ingegnere informatico e io sono una scrittrice, chi vuoi che porti a casa più soldi?
Lo vedo già alzare gli occhi al cielo mentre legge queste parole grazie a Google Translate, protestando che non è vero che sono solo io che cucino in casa nostra!
Infatti non è vero: quando arriva l’ora di cena, in casa nostra cucina chi di noi due ne ha voglia, o chi ha avuto la giornata meno pesante, o chi si sente più ispiratə da una ricetta particolare, o chi è più bravə a realizzarla. Che la donna di casa provenga da un paese con una tradizione culinaria diversa da quella dell’uomo (ehi, non ti offendere! “Diversa” non è un giudizio di qualità 😂) non significa che ai fornelli ci finisca sempre lei. Lui cucina spessissimo e lo farà anche stasera, prima del dibattito tra Biden e Trump.
E nonostante nel conto corrente dell’uomo di casa entrino più soldi di quello della donna, in linea di principio dividiamo tutte le spese a metà, dalle bollette al supermercato al cibo d’asporto alle vacanze, a meno che unə dellə due non abbia voglia di offrire, e può essere lui come posso essere io. L’unica eccezione è l’affitto, la spesa mensile più grande, che quando siamo andati a convivere abbiamo deciso di dividere in proporzione al reddito. Ai tempi io lavoravo a Google (dove ci siamo conosciuti) e il mio reddito era più alto, ma comunque inferiore al suo a tal punto che una divisione uguale (50/50) non sarebbe stata equa, ovvero rispettosa delle reali risorse economiche di ciascunə. Equo significa che nessunə ci perde, nessunə ci guadagna, ma c’è equilibrio e giustizia.
Eppure, anche con equità, equilibrio e giustizia, la differenza esiste e persiste ed è perfettamente allineata con i classici binari uomo-donna che piacciono tanto al patriarcato. Nella nostra relazione l’uomo guadagna più della donna, e non solo nel presente: guardando al futuro, il maggiore potenziale di crescita di carriera e reddito è suo, non mio.1
In caso di figlə, la donna nella nostra relazione non è solo colei che lə darebbe alla luce e avrebbe l’equipaggiamento necessario per nutrirlə nei primi mesi di vita, ma è anche quella con il lavoro (al momento) più instabile e meno redditizio — presumibilmente il primo che verrebbe messo in pausa se ci trovassimo alle strette. Anche perché qui negli Stati Uniti al lavoro è legata la copertura sanitaria: il suo lavoro dipendente la offre, il mio freelance no (spero che si capisca che non ho nessuna intenzione di sacrificare i miei sogni professionali, sto solo illustrando con realismo la mia situazione relazionale, che è simile a quella di tante altre donne).
Come navigare un contesto di questo tipo senza replicare l’assetto e le dinamiche familiari tanto care al patriarcato, che vuole che l’uomo lavori e porti a casa la pagnotta e la donna si prenda cura della prole, della biancheria e della cucina e rinunci alle proprie ambizioni professionali?
Risposta: con una disposizione d’animo che si chiama intenzionalità.
Prima di entrare in merito, vi racconto brevemente i fatti recenti che hanno ispirato questa riflessione.
Qualche giorno fa, una nota attivista per la maternità e la lotta di classe (il nome è assolutamente irrilevante: questo non è un attacco ad mulierem, tanto che si tratta di una bellissima persona il cui lavoro è essenziale e dobbiamo apprezzare e sostenere) ha postato su Instagram storie in cui diceva di essere, giustamente, molto stanca dopo aver passato la giornata a occuparsi della casa e del figlio.2 Ad alcune persone il fatto che una donna che si muove per la liberazione delle madri sia così dedita all’attività domestica, stile casalinga d’antan, mentre il compagno lavora è sembrato un cortocircuito del femminismo. L’attivista ha replicato che pretendere una divisione equa del lavoro domestico in una famiglia a basso reddito come la sua è un atto classista: il compagno svolge tre lavori per sostenere la famiglia; è giusto che lei nel frattempo si occupi della casa e del bambino e non pretenda da lui di svolgere anche parte del lavoro domestico. Secondo l’attivista, il cortocircuito del femminismo sarebbe quindi non riconoscere, da una posizione di privilegio, che alcune donne devono svolgere il lavoro casalingo non retribuito al posto dell’uomo mentre lui si fa il mazzo per tirare a campare, e farle sentire in colpa per questo quando la colpa è del capitalismo, che priva le classi meno agiate della possibilità di scelta.
Come al solito, in medio stat virtus. La virtù sta nel mezzo perché io credo che nessuno dei cortocircuiti denunciati da una parte e dall’altra abbia ragione di esistere. Non è vero che una donna che si occupa di prole e faccende domestiche viene necessariamente meno ai valori del femminismo, così come non è vero che desiderare e ottenere una divisione equa del lavoro domestico è un privilegio di classe.
Anzi! Storicamente è sempre stato il contrario: sono le famiglie più privilegiate a potersi permettere che unə dellə genitorə (di solito, ovviamente, la madre) rimanga a casa a svolgere mansioni non retribuite mentre l’altrə lavora in cambio di stipendio. E poi dove sta scritto che se una famiglia ha bisogno di tre lavori per mantenersi, quei tre lavori debbano essere tutti svolti dall’uomo? Perché non due la donna e uno l’uomo? O uno e mezzo ciascunə?
È un peccato che la nota attivista abbia ridotto a una questione di classe il dibattito, importantissimo e necessario, sulla divisione equa del lavoro domestico: non è di privilegio che dobbiamo parlare in questo caso, ma di intenzionalità nelle decisioni che prendiamo, e dei valori che fanno da pilastro a queste decisioni intenzionali.
Una donna femminista non perde punti di femminismo se si occupa anche di faccende domestiche e si prende cura della prole mentre il marito è in ufficio, se questo assetto familiare è stato adottato intenzionalmente dopo debite discussioni, prove sul campo, esperimenti per vedere cosa funziona meglio per l’equilibrio particolare del proprio nucleo familiare.
Un assetto familiare di questo tipo può comunque essere fondato nei valori del femminismo e della parità di genere, a patto che sia intenzionale, ragionato, approvato da ambo le parti, e non il risultato di una coppia che si adagia per default nei ruoli stabiliti dal patriarcato.
Sembrerà una stupidaggine, forse addirittura un’ingenuità dire che “parlarne intenzionalmente” è l’unico modo per costruire dinamiche familiari fondate nei valori del femminismo anche quando le circostanze sembrano remare contro — ma guardate che questa è davvero l’unica cosa che possiamo controllare.
Lo stipendio che percepiamo? Non lo possiamo controllare (negoziare, magari, ma è diverso). L’offerta di lavoro nel nostro campo professionale? Non la possiamo controllare. La classe sociale a cui apparteniamo e il privilegio che ne deriva? Il sogno americano asserisce che li possiamo controllare; io penso di no, e le persone nere, le persone povere, lə migrantə, ecc. sono d’accordo con me.3
Una discussione critica con lə nostrə partner per far sì che nonostante tutti i fattori in gioco che sfuggono al nostro controllo, la nostra famiglia sia comunque specchio di equità e giustizia, di rispetto e dignità per la donna? Questa sì che la possiamo controllare.
Non vi dico quanto mi piacerebbe essere la burattinaia del mercato del lavoro e intervenire sul modo in cui alloca domanda, offerta e costo. Come prima cosa aumenterei l’offerta di lavoro per lə scrittorə e imposterei la loro retribuzione minima a una cifra a sei zeri. Purtroppo non dipende da me, e salvo miracolosi imprevisti, le parole che io scrivo genereranno sempre meno entrate economiche dei codici che programma il mio compagno. E allora che facciamo? Ci arrendiamo ai dettami del patriarcato? No. Esaminiamo intenzionalmente le nostre scelte per far sì che, nonostante i classici binari uomo-donna su cui ci teniamo in equilibrio, la nostra relazione e la nostra famiglia siano allineate con i valori della parità di genere. È l’unica cosa che possiamo controllare.
È del tutto possibile che questo sia lo stesso percorso che ha portato la nota attivista ad adottare l’assetto familiare che la vede impegnata sul fronte casalingo mentre il compagno porta avanti tre lavori. Benissimo! Mi sarebbe piaciuto sentire il racconto di questa storia — che può essere esempio e ispirazione per tante altre coppie che desiderano creare un nucleo familiare equo e paritario — invece di assistere a un ribaltamento della conversazione da una prospettiva di classe, quando una divisione equa del lavoro casalingo è desiderabile e possibile anche nelle famiglie a basso reddito, se c’è intenzionalità.
È fondamentale che si raccontino storie di nuclei familiari dove l’uomo lavora e/o guadagna più della donna e lei rimane a casa, ma la famiglia è comunque salda nei valori della parità di genere e li porta avanti con passione. Perché, siamo onestə, è questa la realtà della maggior parte delle famiglie italiane! La realtà è che in Italia solo il 51% delle donne ha un lavoro rispetto al 69% degli uomini!4 La realtà è che in Italia solo il 21% delle donne percepisce uno stipendio più alto del partner!5
Ma vi garantisco che anche in queste condizioni, con intenzionalità — mentre continuiamo a lottare per colmare il divario occupazionale e retributivo — è possibile attuare i valori del femminismo in una relazione o in famiglia senza cadere nelle trappole del patriarcato.
È ovvio che tutto può succedere — ce la sto mettendo tutta! — ma è un po’ come i pronostici per gli Europei: la Svizzera sta giocando meglio dell’Italia, ma gli allibratori scommettono sull’Italia come vincitrice della partita degli ottavi perché di solito, in teoria la nostra Nazionale è superiore.
CORREZIONE: la prima versione del pezzo diceva che l’attivista aveva postato una serie di storie in cui si mostrava dedita alla cura della casa e del figlio, e da questo sarebbero scaturite le critiche successive. Non è stato così. Purtroppo le storie di Instagram in questione non sono più disponibili e mi sono basata sul resoconto di persone a me fidate, mal interpretandolo.
E la vocazione per una certa professione, invece? Non so, io non ho mai “deciso” che mi piacesse scrivere: mi è successo. Di pancia, senza rifletterci troppo, mi viene da dire che la vocazione è più una questione di stelle che si allineano nell’universo in un certo modo nella storia di una vita. La scelta di seguire quella vocazione sì, invece, generalmente la possiamo controllare, così come possiamo controllare il nostro percorso di studi. Però, se scegli di scrivere codici per computer per le prospettive di guadagno ma proprio non ti piace o non ti viene bene, non c’è controllo che tenga.
Secondo il Gender Gap Report 2023 di Osservatorio JobPricing